Dalla quarta di copertina: Una maternità indesiderata con un uomo sposato è la scintilla del dramma pastorale e fiabesco, in cui al posto di orchi e fate ci sono creature altrettanto misteriose e cupe di briganti e pastori. Ma Grazia Deledda non si limita a denunciare lo stato di degrado al quale una fanciulla bella e inconsapevole può ridursi per colpa di un amore ingannevole, prima rubato e poi tradito, bensì traccia, all'interno di una cornice rurale e selvaggia (il locus amoenus mitico della sua infanzia), tutta una serie di rappresentazioni simboliche e contraddittorie che rendono evidente il continuo senso d'impermanenza dell'esistenza. Gli alti e bassi vertiginosi di quasi tutti i personaggi cozzano con l'idealizzata riprova sociale a cui tutti profondamente aspirano, tutti al contempo vittime e carnefici. Contrariamente alla Lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, in cui il ruolo sociale del senso di colpa è preponderante e il marchio serve da monito per il resto della comunità, in Cenere è il sacrificio ultimo della vita della madre per il bene del figlio a tenere le fila della narrazione. In questo caso non ci sono sconti di pena: Olì non ha modo di emanciparsi con un lavoro manuale per provvedere alla sua creatura e si perde in un abisso di autodistruzione fatto di inganni ed illusioni, reiterando ossessivamente sempre gli stessi errori e rifiutandosi anche di prendere parte alla narrazione, mentre il figlio abbandonato resta l'unico protagonista di un romanzo di formazione.
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