La prima cosa che si nota leggendo questo libro è la volontà di Antonello Menne di lasciarsi andare, di raccontare una parte del suo passato e delle sue origini finora sconosciuti. È come se avesse definitivamente "accolto" il lettore, permettendogli di conoscere non più solo l'esperto camminatore, ma anche il viandante impaurito ed emozionato all'idea di tornare nel luogo in cui tutto ha avuto inizio. Se negli altri libri ha illustrato il suo modo di intendere il Cammino e la sua visione del mondo, in questo ha descritto alcuni dei momenti in cui queste considerazioni hanno avuto origine. Dopo aver raggiunto Gerusalemme, che rappresenta la vetta e il traguardo finale, torna "indietro". Da Milano, dove abita e lavora con successo, in compagnia di altri pellegrini, attraversando gli Appennini e la Corsica, Antonello torna a piedi in Sardegna, e non la Sardegna delle spiagge bianche, del mare cristallino e delle rassicuranti vetrine, no. Torna, in particolare, nella sua Barbagia, la cupa, arida e selvaggia Barbagia, culla di tensioni mai sopite e malcelate insicurezze. In modo leggero e mai superficiale, racconta la terra in cui è nato e cresciuto e lo fa con un'invidiabile trasparenza, cosa non facile, perché la Sardegna è un infinto microcosmo e far capire a chi non c'è nato e cresciuto le sue mille sfaccettature è forse una delle cose più difficili in assoluto. Antonello lo fa con passione e manifesta riconoscenza. "D'altronde - scrive - noi sardi abbiamo bisogno di questa terra, possiamo andare in giro per il mondo e perderci tra i camminamenti della Cordigliera delle Ande o i fiordi dei paesi scandinavi, innamorarci della notte boreale a Reykjavik o dei tramonti sulla baia di L'Avana, ma poi sentiamo la necessità di tornare qui, nell'Isola di Ichnusa".
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