L'art. 27, co. 3, della Costituzione, prevede che "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". L'opera si interroga sull'effettività di tale disposizione, asserito caposaldo del sistema sanzionatorio italiano, giungendo a un tragico ma necessitato epilogo: la pena detentiva, così come attualmente intesa, non è idonea a onorare tale impegno. È la recidiva il dato che meglio funge da cartina di tornasole: circa il 70% degli "ospiti" dei nostri istituti è già stato detenuto. Il fallimento del trattamento educativo intra-murario è dunque palese, complice l'inefficacia delle misure alternative e delle pene sostitutive, che evidentemente non hanno trovato una compiuta collocazione nel sistema. Sul finale, l'opera muove alla ricerca di un'alternativa, vagliando la fattibilità della più originale tra le ipotesi prospettabili: la teoria abolizionista. Essa dipinge un sistema sanzionatorio che faccia a meno della detenzione ma che ad oggi, anche a detta dei suoi più arditi sostenitori, non è praticabile. Tuttavia, benché i tempi non siano maturi, l'abolizionismo carcerario può e deve assurgere a ruolo di faro e di allarme nel buio intorpidito del nostro sistema sanzionatorio.