Questo racconto è vero a metà. I personaggi sono fittizi, la morte di 146 operai è reale. L’incendio che scoppiò alla Triangle Shirtwaist Company alle 16.40 del 25 marzo 1911, a New York, era prevedibile. La fabbrica di camicette, di proprietà di Max Blanck e Isaac Harris, occupava gli ultimi tre piani dell’Asch Building, fra la Green Street e Washington Place. Erano circa cinquecento gli operai che vi lavoravano. La maggior parte di essi erano emigranti: italiani, europei dell’Est, ebrei. L’età variava dai dodici anni a salire. Il salario era una miseria: sei, sette dollari a settimana, per turni anche di quattordici ore al giorno. Le condizioni igienico-sanitarie inesistenti. La sicurezza era una parola sconosciuta. In un ambiente in cui c’erano reagenti chimici, pezze di tessuto sintetico e carta usata per disegnare i modelli, la prima cosa logica sarebbe stata un’areazione dei locali, divieto di fumo, massima igiene ed estintori. Questo, col senno di poi. A quei tempi, però, indigenza e ignoranza costringevano la gente ad accettare lavori degradanti e sottopagati, senza badare troppo alla propria incolumità. Sfruttati, mal pagati e vessati persino dai sorveglianti, gli emigranti erano alla stregua della “carne da cannone”. Non importava che gli incidenti si susseguissero né contava che degli operai morissero. Accadeva e accade ancora oggi. Ma l’incendio che devastò l’ottavo piano di quell’edificio cambiò l’opinione pubblica. L’America assistette terrorizzata alla morte di 146 persone, fra uomini, donne e ragazzine. Erano emigranti, ma erano tanti, troppi per chiudere gli occhi e fingere di non sapere. Si aprirono tavoli di discussione. Bisognava porre le basi per un contratto collettivo del lavoro che fosse meno massacrante. Erano dovute morire 146 persone affinché l’America prendesse coscienza dei diritti dei lavoratori.