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La traduzione dell’accurato studio monografico di Alfredo Escande intende offrire al lettore italiano una panoramica completa e dettagliata sulla vita e sulle opere di Abel Carlevaro. Al tal proposito, è necessario premettere un chiarimento che suonerà paradossale: non ho alcun legame con la scuola di Carlevaro, né tantomeno ritengo – in virtù di una qualche frequentazione dei suoi scritti teorici o di un costante ascolto delle sue incisioni discografiche – di potermi collegare, in una maniera o nell’altra, al suo pur importante lascito. Mi sento parte, ovviamente alla lontana, della scuola di…mehr

Produktbeschreibung
La traduzione dell’accurato studio monografico di Alfredo Escande intende offrire al lettore italiano una panoramica completa e dettagliata sulla vita e sulle opere di Abel Carlevaro. Al tal proposito, è necessario premettere un chiarimento che suonerà paradossale: non ho alcun legame con la scuola di Carlevaro, né tantomeno ritengo – in virtù di una qualche frequentazione dei suoi scritti teorici o di un costante ascolto delle sue incisioni discografiche – di potermi collegare, in una maniera o nell’altra, al suo pur importante lascito. Mi sento parte, ovviamente alla lontana, della scuola di Regino Sáinz de la Maza, sfociata in Alirio Díaz e filtrata attraverso gli stilemi di Segovia. Essenzialmente, pertanto, mi considero un tardoromantico. Più precisamente, un segoviano puro. Segovia rappresenta per me il punto d’equilibrio, posto che depurò la prassi interpretativa di Llobet – e della sua scuola: Anido e affini; ma anche, per certi versi, di Tárrega e dei suoi discepoli: ex multis, si pensi a Robledo – di certi eccessi o limiti riferibili a un “romanticismo stanco”: portamenti, difetti della tecnica strumentale, in sostanza iperbolismi coloristici che finivano per inficiare il gusto e l’eleganza dell’atto interpretativo; insieme, però, non si lasciò irretire dalla piattezza esecutiva al servizio degli sterili filologismi (assenza di rubati e di passaggi nelle corde interne, sistematica esclusione dei portamenti, predilezione per il tocco volante), preservando quella cantabilità ch’è frutto sì di una scrupolosa cura del suono, ma anche dell’aderenza ai migliori esiti stilistici dell’ultimo Ottocento. È pleonastico precisare che quanto sostengo va di pari passo con una profonda ammirazione nei confronti dei grandi interpreti menzionati, inverati e non sconfessati dalla raffinata calibratura segoviana del tardoromanticismo. Siffatta operazione, in ogni caso, permise a Segovia di giocare alla pari con i vari Heifetz, Rubinstein, Casals. Perfino con Busoni, quando trascrisse la Ciaccona (ma versioni precedenti, in ordine cronologico discendente, risalivano a Sáinz de la Maza, a Sinopoli e a Manjón). La mia ideale continuità con (la scuola di) Segovia non m’impedisce però di subire il forte fascino del folclore popolare, specie nelle dense riarmonizzazioni con cui Díaz (insieme a Sojo, ma anche autonomamente) ha rivisitato i cantori del nobile sostrato culturale della sua terra (con le splendide antologie di arie venezuelane), fino a spingersi – negli ultimi lavori – a toccare la tradizione napoletana (operazione d’altronde già avviata con la versione, condita da accordi alterati ed effetti a ritmo di marcia, della sigla del vecchio Carosello RAI, all’epoca in cui pure suonò con Rolando Nicolosi al pianoforte l’Adagio di Aranjuez). Sono abbastanza certo che Díaz avesse II ereditato gran parte di quella straordinaria predisposizione per l’arrangiamento – se di arrangiamento, e non di creatio “ex novo ”, si trattava – da Sáinz de la Maza, ancor più che da Segovia. Non ho comunque difficoltà a comprendere le ragioni che spinsero Segovia a tenersi lontano da un certo folclore. Da Lauro, tanto per citare un esempio, con l’unica eccezione di Natalia (all’epoca chiamata Vals criollo).