«Dimmi le parolacce che usi e ti dirò chi sei, da dove vieni, da quale popolo sei stato educato o negativamente condizionato» (Dario Fo) Tutti diciamo le parolacce, chi più chi meno. Anche Francesco, il poverello d’Assisi, le diceva, come testimoniano i suoi Fioretti. Eppure le parolacce sono considerate un vizio spregevole (e il dispregiativo è presente già nel termine stesso) e di basso livello, da cui ci si vorrebbe liberare per essere più «civili». La pensava diversamente il neurologo britannico John Hughlings Jackson (1835-1911) che sosteneva: «Colui che per la prima volta ha lanciato all’avversario una parola ingiuriosa invece che una freccia è stato il fondatore della civiltà». Sembra, tra l’altro, che tale aforisma sia stato fatto proprio da alcuni politici italiani che della parolaccia hanno fatto la propria cifra espressiva. Queste breve riflessioni sociolinguistiche sull’uso delle parolacce guardano alla questione delle “male parole” come a un dato di fatto e ne valutano gli effetti nella comunicazione, ponendo una particolare attenzione all’aspetto culturale. Con un’ultima, impellente, domanda: se le parolacce fanno parte della cultura di un popolo, come mai nelle grammatiche italiane per stranieri, e non solo, sono un argomento tabù?