L’arte italiana, verso la metà del secolo XVI, era stata vinta dall’antichità classica; e la sua natura male traspariva sotto il peso delle corazze e degli elmi, il viluppo delle clamidi e dei pepli. Non parlava più nell’idioma di Dante, non diceva nella lingua del popolo; perchè dai fòri, dai templi, dalle terme una folla di statue era uscita come una fuga di bianche ombre a inaridire il suolo toccato dai loro calzari. La tradizione cristiana e le forme neo-latine cessarono; e l’imitazione dell’antico determinò un’arte tutta a formule grammaticali, entro cui più non era l’anima illuminata dalla fede, lo spirito della vita nuova. Passarono il nuovo Achille chiomato, coi muscoli gonfi, la testa incassata nell’elmo; Ercole poderoso e Bacco ubbriaco, ma tutti quegli eroi, quei Semidei e quegli Dei rivissero in una cerchia angusta, senz’aria. Il popolo li aveva dimenticati, elaborando le immagini della Vergine, del Cristo e dei Santi; e l’umanesimo che li aveva scavati, non s’era accorto di dare alla luce mummie, non corpi vivi. La maschera antica rimase confitta sulla faccia dell’arte lungo il secolo XVII, benchè i barocchi ne torcessero in un ghigno le labbra, e la sciupassero ognor più nelle loro gazzarre carnevalesche. La maschera apparve tra i blocchi di marmo, i dirupi di macigno e i torrenti di bronzo; e intanto nelle magnifiche pompe, ne’ meravigliosi apparati da festa, nell’aggrovigliarsi di giganti, nel ritorcersi de’ colonnati dei curvi edifici, non v’era rifugio per l’anima in cerca di pace e di affetti.