Anni Ottanta. Nel pieno della desolata steppa kazaka, il capitano Chabarov presta servizio in una compagnia annessa a una colonia penale dove le notizie arrivano in pacchi di giornali dell’anno precedente e le razioni finiscono col marcire sui camion del reggimento. Chabarov è un comune funzionario del sistema, che ogni giorno affronta le insensatezze di una assurda burocrazia con un’alzata di spalle e un sospiro. Eppure si distingue in mezzo agli altri ufficiali, completamente disumanizzati. Non è un
santo, ma una persona razionale che sente ancora su di sé il peso di una qualche responsabilità. Il suo pragmatismo comincia a vacillare quando un giovane propagandista politico giunto al campo con l’ambizione di “salvare tutti e cambiare il mondo”, disilluso, tenta il suicidio. Ma il capitano si scontrerà con il muro cieco della follia militare. Pianta patate per procurare cibo alla guarnigione e si
ritrova perseguito per questo. Per impedire
che i tuberi vengano saccheggiati mette a guardia dei cani, ma alcuni soldati li ammazzano e se li mangiano. Quando le patate vengono raccolte, dagli alti ranghi viene ordinato che le “provviste non autorizzate” vengano confiscate: il raccolto è lasciato a marcire e il capitano dovrà essere arrestato. Dovesse finire nella stessa prigione in cui ha prestato servizio, la sua vita non cambierebbe poi tanto, a dimostrazione che c’è ben poca differenza tra la vita del carceriere e quella del carcerato. Dipingendo a pennellate lievi ma incisive la dissoluzione di un “Imperium” negli anni antecedenti al crollo definitivo del colosso sovietico, Pavlov naviga abilmente sul filo del rasoio fra commedia nera e tragedia, rendendo la sua narrativa molto più umana, universale e seria di quanto potrebbe fare la satira.