Capo Verde è un racconto intenso, magmatico, pregno di topoi esistenziali che intercettano nel mare la loro cifra più autentica. Il mare, metafora incarnata, sradicamento dell’umano dalla sua presunta stabilità ontologica: increspature e onde minacciose, mareggiate e bonaccia, pacifica distensione acquatica e sommovimento duro e profondo, mai la purezza della stasi nel suo implodere nella noia o nel suo impennarsi nella beatitudine, che in questa vita, in questa carne, in questo fango mescolato alle stelle, non ci può mai essere consegnata. Emilio Bergonzi cuce sull’acqua una storia di vita e di morte, di uscita da sé, per ritrovarsi nella condivisione della propria fragilità nel segno dell’amore. Il protagonista abbandona la propria famiglia, ormai stanco di una vita che continua a ripiegarsi su se stessa, e approda a Capo Verde. Il tempo biologico è “solo un dettaglio” rispetto al tempo progettuale, alla pienezza dell’ora cui ancorare il senso di tutta una vita. Forse, è allora proprio questo il passaggio chiave del racconto: «Se ti poni un traguardo, ad esempio rendere abitabile questa catapecchia, la fine sembra più lontana, non ti senti vecchio, non ti senti finito, perché ogni giorno vedi quello che ancora ti manca da fare per completare l’opera. È come camminare in montagna: vedi la vetta e sai che è là che devi arrivare; fai fatica, sudi, ti chiedi chi te l’abbia fatto fare, ma poi continui e fai di tutto per arrivare. Il tempo che ci impiegherò è solo un dettaglio e, se vuoi, neanche molto importante». Fabio Gabrielli