I fratelli Hans, Emil e Kateřina devono far fronte, come la loro madre Marta, alla malattia e alla morte di una persona cara, il padre, il medico Jan Nedoma (che significa “senza casa”: nessuno in questo mondo è realmente a casa). Tutti e quattro si trovano a fare i conti con se stessi e i propri ricordi, e a far fronte alle accuse postume di complicità con le autorità comuniste mosse a loro padre da quello che un tempo era il suo migliore amico. Si tratta di un’amara ironia, “chiedere papà come siano andate davvero le cose” non è più immaginabile né possibile.
Il romanzo di Balabán è pervaso di domande che riflettono sul senso, sulla qualità e sul percorso della vita umana, sui rapporti famigliari, sulla malattia e sulla morte, e su quel che resta dopo. Con un’immediatezza straziante, che porta in sé una dimensione di meditazione e un’urgenza di espressione interiore concreta, l’autore descrive in modo estremamente preciso l’aspetto tragico del destino individuale che tende inesorabilmente al suo punto finale. Non è forse vero che è dalla nascita che si comincia a morire? E nel frattempo, che cosa facciamo, che cosa siamo?
Quarta originale del poeta e amico Petr Hruška
«La morte osserva le nostre vite.
L’evento centrale dell’ultimo romanzo di Jan Balaban è l’agonia e la morte di un uomo, ma ciò che racconta davvero è l’impegnativa ricerca della vita. Poiché questa deve sempre essere trovata nella profondità di ciascuno. E poi di nuovo reinventata. In un certo senso siamo tutti simili ai personaggi della meravigliosa storia di Jan Balabán, traboccante di conversazioni, di soliloqui e silenzi. Una storia in cui si cerca la verità, e si trova la sincerità. Tutti noi, nella nostra parabola mortale, cerchiamo di scoprire qualcosa sull’essenza della realtà, o almeno trovarci per un un momento vicino a qualcosa di importante.
È quasi impossibile, perché ne sappiamo terribilmente poco. La nostra mente è sopraffatta da domande e dubbi, sfiducia e incredulità, nervosismo e aggressività. L’energia viene sprecata nel cieco affanarsi quotidiano. Le parole si ribellano in una inesattezza maligna, le mani sono corte …
Abbiamo ancora un cuore.»
Il romanzo di Balabán è pervaso di domande che riflettono sul senso, sulla qualità e sul percorso della vita umana, sui rapporti famigliari, sulla malattia e sulla morte, e su quel che resta dopo. Con un’immediatezza straziante, che porta in sé una dimensione di meditazione e un’urgenza di espressione interiore concreta, l’autore descrive in modo estremamente preciso l’aspetto tragico del destino individuale che tende inesorabilmente al suo punto finale. Non è forse vero che è dalla nascita che si comincia a morire? E nel frattempo, che cosa facciamo, che cosa siamo?
Quarta originale del poeta e amico Petr Hruška
«La morte osserva le nostre vite.
L’evento centrale dell’ultimo romanzo di Jan Balaban è l’agonia e la morte di un uomo, ma ciò che racconta davvero è l’impegnativa ricerca della vita. Poiché questa deve sempre essere trovata nella profondità di ciascuno. E poi di nuovo reinventata. In un certo senso siamo tutti simili ai personaggi della meravigliosa storia di Jan Balabán, traboccante di conversazioni, di soliloqui e silenzi. Una storia in cui si cerca la verità, e si trova la sincerità. Tutti noi, nella nostra parabola mortale, cerchiamo di scoprire qualcosa sull’essenza della realtà, o almeno trovarci per un un momento vicino a qualcosa di importante.
È quasi impossibile, perché ne sappiamo terribilmente poco. La nostra mente è sopraffatta da domande e dubbi, sfiducia e incredulità, nervosismo e aggressività. L’energia viene sprecata nel cieco affanarsi quotidiano. Le parole si ribellano in una inesattezza maligna, le mani sono corte …
Abbiamo ancora un cuore.»