Il quinto giorno è stato anche quello in cui le nostre teste erano come un campo di fiori sbocciati nella sala di meditazione. L'operazione chirurgica era in pieno atto, i nostri cervelli erano scoperchiati. Sembravano grandi fiori con i petali rosa dai quali emergevano i nostri più radicati saṃsāra e i nostri bisturi mentali erano lì in piena attività, pronti a sradicare i vizi mentali di una vita, pronti a recidere il legame che c'è tra la vera sofferenza e la sensazione della sofferenza, nodo cruciale per annullare la sofferenza in sé e portarla, tramite il solo osservare, fuori da sé. Eravamo seduti su questi tappetini di un metro quadrato, tanti piccoli tappeti volanti che ci facevano planare nelle caverne dei nostri inferni a raccogliere con un retino le nostre più profonde repressioni, i nostri nodi irrisolti, per poi farci risalire alla superficie, metterli sotto una lampada asettica di una sala operatoria e osservarli contorcersi, come fanno i vermi venuti in superficie dopo la pioggia che si seccano e si polverizzano sotto l'impietosa luce del sole. E noi lì, impassibili, a osservarli mormorando: vediamo quanto duri. Sei la fonte del mio dolore, ma come tutte le cose nasci, cresci e poi passi. Sei effimero, e il tuo destino è cessare di esistere. E il dolore cessava