Le prime notizie sulla coltivazione del mais e di relative polente in Veneto e Friuli, si hanno già verso il 1550-55, prima di altre regioni, probabilmente favorito nella conoscenza dai commerci veneziani e dall’abbondanza d’acqua di queste regioni. Secondo lo studioso Giovanni Beggio la prima semina si ebbe in Veneto nel 1554, per diffondersi prima nelle zone paludose e poi in tutta la pianura Padana. Si cominciò a chiamarlo Grano Turco, per la consuetudine di definire “turco” tutto ciò che era esotico e strano.
Una teoria vuole che a Venezia si conoscesse già il mais, proveniente dai territori d’oriente e dalla Turchia, e che venisse impiegato per fare i Zaleti, i tipici biscotti veneziani, ben prima che Colombo scoprisse il nuovo mondo. Viaggiatori tedeschi descrissero le pianure dell’Eufrate coltivate a mais. E d’altro canto esiste il Grano Saraceno, che forse era usato al posto del mais, prima che fosse coltivato.
In ogni caso nel XVII secolo si assiste ad un grande sviluppo delle coltivazioni di mais. Diviene via via uno degli elementi principali delle disponibilità alimentari delle classi contadine, rappresentato da quello che rimaneva dopo la spartizione con il proprietario, dato che i contratti di mezzadria prevedevano che la parte del padrone fosse data principalmente in frumento.
Nelle varie zone si differenziarono poi i tipi di farina, andando dal grano saraceno, alla farina di mais gialla e quella bianca, macinate più o meno grosse.
Velocemente il mais, dopo il suo arrivo nel XVI secolo dalle Americhe, soppianta i cereali minori fino a quel momento impiegati, da soli o in abbinamento con il frumento, per la preparazione di polente cotte, del pane e degli altri prodotti da forno e diventa un indiscusso protagonista. Nelle vicende della cucina povera di tutto il nord della penisola, affiora senza soluzione di continuità il ricordo delle antiche polentine molli, termini come pult, polt, puta, puti, putiscia, putöö, comuni in quasi tutte le tradizioni culinarie della campagna padana, identificano appunto delle papette e farinate, più o meno consistenti, ottenute dalla cottura di farina in acqua o latte, con un’ombra di condimento, e questa tradizione delle farinate o polentine variamente condite è arrivata fino a noi.
Scrivere allora della polenta, dei dolci, biscotti e pane, confezionati con la farina di granoturco, vuol dire parlare della tradizione povera delle popolazioni contadine e montanare e della loro cucina rustica di sopravvivenza, in una varietà infinita di elaborazioni. Prima delle grandi carestie del XVII secolo e della rapida propagazione della coltura del mais, si preparavano polente con farina di segale, farro, fraina, miglio, sorgo, orzo, riso e, naturalmente, frumento, per quanto questo cereale potesse essere disponibile. Dalla metà del ‘700, in tutto il Nord della penisola, il mais sostituì quasi completamente (soprattutto nei territori di montagna) le colture cerealicole minori e la polenta gialla..
Una teoria vuole che a Venezia si conoscesse già il mais, proveniente dai territori d’oriente e dalla Turchia, e che venisse impiegato per fare i Zaleti, i tipici biscotti veneziani, ben prima che Colombo scoprisse il nuovo mondo. Viaggiatori tedeschi descrissero le pianure dell’Eufrate coltivate a mais. E d’altro canto esiste il Grano Saraceno, che forse era usato al posto del mais, prima che fosse coltivato.
In ogni caso nel XVII secolo si assiste ad un grande sviluppo delle coltivazioni di mais. Diviene via via uno degli elementi principali delle disponibilità alimentari delle classi contadine, rappresentato da quello che rimaneva dopo la spartizione con il proprietario, dato che i contratti di mezzadria prevedevano che la parte del padrone fosse data principalmente in frumento.
Nelle varie zone si differenziarono poi i tipi di farina, andando dal grano saraceno, alla farina di mais gialla e quella bianca, macinate più o meno grosse.
Velocemente il mais, dopo il suo arrivo nel XVI secolo dalle Americhe, soppianta i cereali minori fino a quel momento impiegati, da soli o in abbinamento con il frumento, per la preparazione di polente cotte, del pane e degli altri prodotti da forno e diventa un indiscusso protagonista. Nelle vicende della cucina povera di tutto il nord della penisola, affiora senza soluzione di continuità il ricordo delle antiche polentine molli, termini come pult, polt, puta, puti, putiscia, putöö, comuni in quasi tutte le tradizioni culinarie della campagna padana, identificano appunto delle papette e farinate, più o meno consistenti, ottenute dalla cottura di farina in acqua o latte, con un’ombra di condimento, e questa tradizione delle farinate o polentine variamente condite è arrivata fino a noi.
Scrivere allora della polenta, dei dolci, biscotti e pane, confezionati con la farina di granoturco, vuol dire parlare della tradizione povera delle popolazioni contadine e montanare e della loro cucina rustica di sopravvivenza, in una varietà infinita di elaborazioni. Prima delle grandi carestie del XVII secolo e della rapida propagazione della coltura del mais, si preparavano polente con farina di segale, farro, fraina, miglio, sorgo, orzo, riso e, naturalmente, frumento, per quanto questo cereale potesse essere disponibile. Dalla metà del ‘700, in tutto il Nord della penisola, il mais sostituì quasi completamente (soprattutto nei territori di montagna) le colture cerealicole minori e la polenta gialla..