La vita di Gabriele d'Annunzio è essa stessa un'opera del Vate, la più grande che egli abbia cercato di scrivere senza disdegnare l'inganno, la menzogna, il divismo. Gabriele confeziona se stesso a misura di pubblico, mescolando realtà e fantasia: inventa la notizia della sua falsa morte per pubblicizzare la sua prima opera, conquista la giovane duchessa d'Hardouin attratto dal blasone di lei e ne seduce, poi, la madre. Possiede giovani nobildonne in gondola e sfrutta l'amore della Duse a suo vantaggio. Spadroneggiò gli uomini del suo tempo, influenzò ogni campo dell’arte e i suoi capricci vennero seguiti con viscerale curiosità da quaranta milioni di italiani. Generoso, regalò a intere generazioni il suo stile, la sua energica espressione massmediatica che coinvolse la folla nel mito delle proprie parole. Si circondava di persone mediocri che, stando vicino a lui, assaporandone l’essenza e osservando quei picchi di innovazione e originalità del Vate, credevano di averle assorbite e fatte proprie. D’Annunzio non poteva invecchiare, non poteva non essere per sempre giovane. Viveva nel miraggio dell’eterna giovinezza, fino a quando, il ricordo di quello che fu, lo travolse. Una parabola che declina fino alla clausura del Vittoriale dove, tra donne e cocaina, non sopravvive al declino del mito che per se stesso aveva inventato.