Gilberto Forti ci restituisce in pochi straordinari tratti la misura vincolante a cui la guerra riduce persone e cose. La dimensione della sopravvivenza non coincide con quella della vita, tuttavia ha il pregio di non nasconderne la precarietà, come ben sanno i latitanti che si ritrovano sospesi, nella loro sub-esistenza, tra una “morte apparente” e una tumultuosa vita interiore. Di questo sfasamento, così come del tormentato rapporto fra memoria e oblio, testimonianza e silenzio, si nutre la scrittura di Forti che nei suoi momenti di asciutto lirismo non si esaurisce mai in un esercizio – seppur alto – di rievocazione storica o biografica. Anzi, da queste storie di giovinezza e di latitanza, ambientate per lo più fra le montagne dell’Appennino emiliano e durante la guerra partigiana, promana un alone di atemporalità che sta a indicare quanto la memoria, individuale e collettiva, sia intaccata da una rimozione necessaria: i ricordi dei superstiti fluttuano in “un regno intermedio fra memoria e immaginazione”, gli stessi luoghi boschivi rifugio dei latitanti e teatro degli scontri bellici sono metafora dello spazio mentale della guerra e di una spettrale convergenza dei vivi e dei morti.Gilberto Forti (1922-99), scrittore, giornalista e grande studioso di letteratura tedesca, ha pubblicato versioni poetiche da Goethe (Sessanta liriche, Rusconi, 1970; Ifigenia in Tauride e Torquato Tasso, in Teatro, Einaudi, 1973) e Trakl (Sebastian in sogno, Edizioni Ca’ Spinello, 1984); nel 1995 ha ricevuto il Premio Monselice per la resa in italiano dei versi di W.H. Auden (La verità, vi prego, sull’amore, Adelphi, 1994). Rimangono memorabili le sue traduzioni di Brodskij, Canetti, Benn, Walcott, Prokosch e von Rezzori. È autore di due opere in forma poetica (Il piccolo almanacco di Radetzky, Adelphi, 1983 e A Sarajevo il 28 giugno, Adelphi, 1984), che, «con certe sottili astuzie dimesse e magre», come scrisse Giorgio Manganelli, rievocano la finis Austriae attraverso «una crepitante marcia di endecasillabi».