Dopo un lungo periodo di oblio, la pubblicazione di saggi sul perfezionismo e il fiorire sul Web di siti di psicoterapeuti che offrono il loro aiuto per sormontare il problema, attestano che il fenomeno è in crescita come peraltro tutte le forme di disagio psichico. L’esame della pubblicistica, però, pone di fronte al fatto che il perfezionismo è malinteso: dagli psichiatri perché, sulla scorta del DSM-V, lo etichettano tout court nell’ambito del DOC (disturbo ossessivo-compulsivo), che è una sorta di notte nella quale tutte le vacche sono nere; dagli psicologi cognitivo-comportamentali perché lo riconducono univocamente ad una serie di convinzioni errate che i soggetti hanno su se stessi e sulla vita e li inducono a prefiggersi obiettivi irrealizzabili. Comune agli psichiatri e agli psicologi clinici è, poi, la distinzione tra perfezionismo sano e perfezionismo patologico, il cui scopo implicito è di sottolineare che se, nel nostro mondo, le richieste di prestazioni – rivolte a studenti, lavoratori, casalinghe, manager e professionisti – sono elevate, alcuni le recepiscono e le realizzano in termini ragionevoli, altri le esasperano e le drammatizzano fino a diventarne schiavi. Un altro limite della pubblicistica è la sua insistenza quasi univoca sul perfezionismo sociale, che comporta il bisogno ossessivo di acquisire conferme dall’esterno, relegando nell’ombra il più diffuso e insidioso perfezionismo morale, che obbliga l’individuo a vivere per scampare ad una disconferma interna. Il revival pubblicistico sul perfezionismo, in breve, è un festival di banalità perché prescinde dall’adottare un punto di vista psicodinamico, l’unico che può rendere conto della complessità, dell’eterogeneità e della drammaticità del fenomeno. Adottando tale punto di vista che, peraltro, postula un radicale cambiamento concettuale sulla struttura dell’apparato mentale, questo saggio mira a fare un po’ di chiarezza.