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Il 24 maggio del 1915 l’Italia dichiarava guerra all’Impero austro-ungarico. L’interventista e socialista Benito Mussolini aveva fortemente voluto la guerra, perché dal conflitto si aspettava la rivoluzione dei rossi: “Quando a Berlino sventolerà la bandiera rossa, noi proletari italiani ci pentiremo di non aver partecipato a questa rivoluzione”, scrisse il futuro duce sul «Popolo d’Italia» dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando. Si arruolò come volontario e venne chiamato come coscritto il 31 agosto del ’15. Il 13 settembre partì per il fronte con l’11° reggimento bersaglieri e…mehr

Produktbeschreibung
Il 24 maggio del 1915 l’Italia dichiarava guerra all’Impero austro-ungarico. L’interventista e socialista Benito Mussolini aveva fortemente voluto la guerra, perché dal conflitto si aspettava la rivoluzione dei rossi: “Quando a Berlino sventolerà la bandiera rossa, noi proletari italiani ci pentiremo di non aver partecipato a questa rivoluzione”, scrisse il futuro duce sul «Popolo d’Italia» dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando. Si arruolò come volontario e venne chiamato come coscritto il 31 agosto del ’15. Il 13 settembre partì per il fronte con l’11° reggimento bersaglieri e dal dicembre scrisse le pagine del suo diario, apparse a puntate sul «Popolo d’Italia» e pubblicate in seguito in un’unica opera nel 1923. In queste pagine si riconosce lo stile asciutto ed essenziale del Mussolini giornalista: la descrizione dei luoghi, degli eventi, della vita quotidiana tra le insanguinate e fangose trincee arriva d’impatto, senza fronzoli. Uno stile che farà la fortuna dell’ex maestro di Predappio nel rivolgersi alle folle. Il diario si interromperà all’improvviso il 23 febbraio del ’17, quando il caporal maggiore Mussolini venne ferito gravemente dallo scoppio di un lanciabombe durante un’esercitazione sul Carso: “Ferito! Nel pomeriggio del 23 febbraio 1917, verso le ore 13, si eseguivano a quota 144 dei tiri d'aggiustamento con un lanciabombe da trincea. Erano attorno a me venti uomini, compresi alcuni ufficiali. La squadra era composta dai soldati più arditi della mia compagnia. Il tiro si era svolto senza il minimo incidente sino al penultimo proiettile. Questo, invece, — e ne avevamo spedite due casse — scoppiò nel lanciabombe. Fui investito da una raffica di scheggie e proiettato parecchi metri lontano. Non posso dire di più. So che venni raccolto quasi subito da altri bersaglieri accorsi, adagiato in una barella, trasportato a Doberdò per le prime cure, portato più tardi in quest'Ospedaletto dove trovai un'assistenza affettuosa, premurosissima. Il capitano medico dott. Giuseppe Piccagnoni, direttore dell'Ospedale di Busto Arsizio, ed i dottori, tutti e due tenenti, Egidio Calvini di San Remo e Luigi Scipioni di Rosolini (Siracusa) mi curarono come se fossi un fratello”. Nel giugno del ’17 tornò alla direzione del «Popolo d’Italia» e le sue idee sulla rivoluzione, come è noto, cambieranno.