Ai tempi di Elisabetta I, l’Inghilterra divenne il laboratorio di una nuova utopia: la pace universale. Sotto l’influsso di Giordano Bruno, che a Londra aveva trovato rifugio, un circolo di intellettuali elaborò una filosofia capace di unire tutte le fedi in una religione universale. Ma occorreva agire segretamente: le spie papiste erano ovunque, e la cattura del domenicano eretico suonava a monito e diffida. Tra gli adepti di Philip Sidney, profeta del panteismo bruniano, Francesco Bacone spiccava per originalità di pensiero e scaltrezza politica. A lui Elisabetta I, minata dalle continue congiure dei suoi ministri, si rivolge per propagare tra la gente l’utopia dei tempi nuovi. Ma occorreva parlare per simboli: illustrare per enigmi. Il teatro, era il luogo buono per la redenzione dalla violenza. Solo col teatro si poteva giungere al popolo. In un’epoca in cui gli attori venivano scomunicati, non si poteva immaginare che un aristocratico diventasse capocomico. Allora Bacone mette a frutto la sua immaginazione scenica e si presenta nella compagnia di un rappezzatore di copioni dall’estro brillante e la scarsa cultura: William Shakespeare. Sarà lui, a propria insaputa, l’araldo del mondo nuovo.