Nel breve racconto, Salgari ci narra di un brutto incontro fatto da due minatori siciliani nelle foreste dell’Uruguay. Dall’incipit del libro: Le foreste dell’America meridionale, sotto certi aspetti, sono ben più pericolose di quelle africane, quantunque anche queste siano popolate da un gran numero di fiere, avide specialmente di carne umana. L’uomo che le percorre, ad ogni istante si trova in procinto di lasciarvi la vita, perché non le sole belve lo insidiano, ma ben anche certi volatili pericolosissimi; perfino anche certe piante sotto la cui ombra non può sdraiarsi senza correre la triste sorte d’addormentarsi per sempre. Nel 1886, nell’Uraguay, vi era stato un certo risveglio fra i numerosi coloni sbarcati dall’Europa. Essendosi sparsa la voce che s’erano scoperti, nelle folte foreste bagnate dal Tocantin, dei filoni d’oro, numerosi emigranti avevano lasciato le borgate per cercare una più rapida fortuna e tornarsene in patria poi con la cintura riboccante di pepite gialle. Fra i primi a slanciarsi fra quelle foreste vergini, forse mai prima attraversate da alcun Europeo, vi erano i fratelli Puraco, due bravi giovani di poco più di venticinque anni, pieni di audacia e di coraggio, che avevano lasciato, non senza rimpianti, la loro Sicilia per cercare fortuna nel Nuovo Mondo. Entrambi avevano già lavorato nelle miniere d’argento della Plata, ed essendo pratici negli scavi, contavano di arricchire rapidamente per tornarsene poi, altrettanto rapidamente, nella natia isola.