Nel caso di Luciano Caniato, il gioco degli specchi si moltiplica, tra Polesine, Conegliano, Belluno e quel dove mai trovato, forse intravisto nell’infanzia e la propria giovinezza, la tragedia dell’alluvione del Polesine (1951), la dissoluzione del mondo contadino e la fine di un secolo. Allo stesso modo si moltiplicano le lingue alle quali ricorre questo mai acquietato Davide (e Golia): il polesano di Pontecchio, la parlata cittadina di Conegliano, quella materna di Sospirolo, spesso intrecciate o fuse, anche in un singolo testo, al volgare illustre (Petrarca e Foscolo soprattutto) e al latino degli studi e della devozione popolare. Il sonetto è ancora una volta la forma metrica con cui Caniato intende dare dimora all’imprendibilità del soggetto (libero-prigioniero).
dalla nota introduttiva di Marco Munaro
Una raccolta dagli esiti sorprendenti, dove il resoconto sul tempo inesorabilmente trascorso e prossimo alla fine è mitigato dalla speranza che la parola permanga oltre noi stessi, come un dono che si trasfigura in eredità.
dalla nota introduttiva di Marco Munaro
Una raccolta dagli esiti sorprendenti, dove il resoconto sul tempo inesorabilmente trascorso e prossimo alla fine è mitigato dalla speranza che la parola permanga oltre noi stessi, come un dono che si trasfigura in eredità.