La Cena de le ceneri è il primo dialogo filosofico che Giordano Bruno (Nola 1548 - Roma 1600) pubblica a Londra. Siamo nell'anno 1584 e Bruno scrive in italiano, dedicando l'opera all'ambasciatore francese Michel de Castelnau, presso il quale era ospite dopo aver lasciato la Francia nell'aprile del 1583. Inquadrabile nell'ambito della filosofia della natura, in essa Bruno, collegandosi alla teoria copernicana, descrive un universo infinito nel quale il divino è onnipresente, la materia eterna e in perenne mutazione. L'opera è divisa in cinque dialoghi, i protagonisti sono quattro e fra questi Teofilo può considerarsi il portavoce dell'autore. Bruno immagina che il nobile sir Fulke Greville, il giorno delle Ceneri, inviti a cena Teofilo, Bruno stesso, Giovanni Florio, precettore della figlia dell'ambasciatore, un cavaliere e due accademici luterani di Oxford, i dottori Torquato e Nundinio.Mentre il primo e il secondo dialogo descrivono gli avvenimenti che hanno favorito l'incontro e quindi la cena, il confronto fra il Nolano e i due dottori di Oxford occupa i successivi due, prima con Nundinio quindi con Torquato rispettivamente. Bruno va oltre l'eliocentrismo di Copernico, e senza essere un astronomo egli intuisce che le stelle che vediamo nel cielo, solo apparentemente fisse, sono altrettanti soli simili al nostro, effetto infinito di una causa senza limiti, tematica che svilupperà a fondo nel De la causa e nel De l'infinito immaginando un universo infinito fatto di mondi innumerabili, ma già nella Cena egli è ben chiaro:
«Questi fiammeggianti corpi son que' ambasciatori, che annunziano l'eccellenza de la gloria e maestà de Dio. Cossì siamo promossi a scuoprire l'infinito effetto dell'infinita causa, il vero e vivo vestigio de l'infinito vigore; ed abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi, se l'abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesmi siamo dentro a noi; non meno che gli coltori degli altri mondi non la denno cercare appresso di noi, l'avendo appresso e dentro di sé, atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla luna»
(La cena de le ceneri, 1956; Teofilo: dialogo I)
«Questi fiammeggianti corpi son que' ambasciatori, che annunziano l'eccellenza de la gloria e maestà de Dio. Cossì siamo promossi a scuoprire l'infinito effetto dell'infinita causa, il vero e vivo vestigio de l'infinito vigore; ed abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi, se l'abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesmi siamo dentro a noi; non meno che gli coltori degli altri mondi non la denno cercare appresso di noi, l'avendo appresso e dentro di sé, atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla luna»
(La cena de le ceneri, 1956; Teofilo: dialogo I)