La tendenza a giudicare è una sorta di automatismo mentale. L’uomo non tollera l’incertezza, il dubbio, la confusione. Laddove è possibile, vale a dire in rapporto alla natura, egli si affida all'illusione dei sensi. Quando però si trova di fronte a comportamenti propri o agiti da altri esseri umani, tanto più se essi appaiono non immediatamente comprensibili o non compatibili con la sua visione del mondo, non può fare a meno di giudicarli. Intrinseca all’apparato mentale, la tendenza a giudicare senza sforzarsi di comprendere è avallata dalla cultura corrente, che fornisce ad ogni soggetto la panacea del senso comune, cioè una quota di pregiudizi prodotti dalle generazioni precedenti o dal gruppo cui appartiene. I pregiudizi sono di ordine culturale non naturale. Nella realtà quotidiana tale consapevolezza non sussiste: i pregiudizi, specie quelli più grossolani, sono scambiati per giudizi realistici e oggettivi. Per ciò l’uomo è mediamente stupido e presuntuoso: non sa di non sapere. Il rimedio all’intolleranza è la comprensione critica, vale a dire una concezione più ampia e profonda della soggettività umana e del rapporto tra soggettività e storia socioculturale. Fa parte del senso comune l’idea che comprendere i comportamenti umani, soprattutto quelli che fuoriescono dall’ambito di ciò che si presume sia la “normalità”, possa portare a giustificarli. L’idea è errata. La comprensione non implica la sospensione del giudizio sul peso oggettivo dei comportamenti, ma lo subordina alla ricostruzione delle circostanze storico-culturali e delle motivazioni consce e inconsce che li determinano.
Partendo da Dilthey e Weber, che hanno avviato una riflessione metodologica sulla comprensione dei fatti umani, il saggio affronta il problema in un’ottica nuova, fortemente influenzata dal pensiero psicodinamico.
Partendo da Dilthey e Weber, che hanno avviato una riflessione metodologica sulla comprensione dei fatti umani, il saggio affronta il problema in un’ottica nuova, fortemente influenzata dal pensiero psicodinamico.