La favola di Amore e Psiche è tra i passi della letteratura latina più belli e godibili per un lettore moderno. Incastonata da Apuleio come un gioiello nel bel mezzo della narrazione de Le Metamorfosi (anche chiamato Lucio o L’Asino d’oro, il libro vanta tre titoli validi), la favola è una metafora eterna delle contraddizioni e dei compromessi tra spirito e corpo connaturati nell’esperienza amorosa. Abbiamo due protagonisti che si innamorano seriamente per la prima volta: il dio dell’Amore Cupìdo ovvero Amore stesso e la bella principessa mortale Psiche. Cupìdo per la prima volta vuole sposarsi, restare fedele a una sola persona, per la prima volta risulta ferito dalle proprie armi onnipotenti, è un dio col cuore reso vulnerabile e inconsolabile dal sentimento stesso di cui è portatore. Psiche, dalla sua, è colpita dall’invidia deorum (l’ostilità degli dèi, nel suo caso l’ira di Venere), si trova sola di giorno in un luogo incantevole e incantato, di notte può solo toccare, ascoltare e abbracciare Cupìdo senza sapere chi sia e vedere che aspetto abbia; è su una vetta di fortune, è la sposa del dio Amore in persona, ma non lo sa. Cupìdo vuole Psiche e Psiche vuole Cupìdo: sono due eroi contro le leggi di comportamento presso le quali sono cresciuti. Per il dio Amore innamorarsi davvero è una caduta verso incomprensibili realtà terrene, per la mortale Psiche è una salita troppo ardua verso verità celesti. Allo stesso tempo Psiche – Anima deve passare attraverso prove terrene terribili per mondarsi della colpa di hỳbris, tracotanza verso gli dèi, e Cupìdo – Amore terreno deve innalzarsi verso vette più spirituali per comprendere il sentimento maturato in lui, deve sentirsi tradito, soffrire, aspettare, guarire per poter infine salvare la sua sposa. Inutile raccontare oltre qui, lascio i lettori ad Apuleio e alla mia traduzione di questa bellissima favola a lieto fine.