Il sintetico quadro ricostruttivo di Gianluigi Tomassi, dedicato alla seconda sofistica e alla declamazione greca di età imperiale, permette di far luce su un fenomeno storico-culturale che si può tendere a considerare ‘di nicchia’, riservato a studiosi della cultura classica di età imperiale, e tardoantica, di poca utilità per l’insegnamento contemporaneo della retorica.
Tomassi presenta un prezioso inquadramento storico del fenomeno declamatorio di ambito greco in età romana, che ne permette la contestualizzazione nel sistema della vita pubblica dell’impero, in cui prende gradualmente sempre più spazio il fenomeno della spettacolarizzazione dell’atto oratorio.
Tuttavia, se le declamazioni pubbliche della seconda sofistica avvengono in situazioni e con finalità necessariamente molto distanti dalle orazioni della prima sofistica del V secolo a.C., a causa delle trasformazioni politiche, sociali e culturali nel bacino del Mediterraneo e nel territorio che denominiamo europeo, tuttavia va sottolineato che nei Sofisti dell’età imperiale permane il sentimento di una continuità rispetto al passato e da parte nostra è possibile riscontrare che le declamazioni continuano ad essere costruite in modo analogo, con sottili argomentazioni, con un’attenzione alla distribuzione dei pensieri nel discorso diversificata a seconda del genere oratorio, con attenta scelta delle parole e, da quanto sappiamo, con studiata memoria del testo in vista di una recitazione pubblica. L’arte retorica della seconda sofistica ha continuato a utilizzare, secondo le norme aristoteliche, i più opportuni luoghi specifici quando si discuteva di utilità comune o di danno, di giustizia o ingiustizia, di lode o biasimo attorno a valori o disvalori condivisi. La performance oratoria davanti a un vasto pubblico in una piazza cittadina era particolarmente adatta a orazioni di genere epidittico, di cui fu grande maestro ad esempio Elio Aristide, che si muove sull’evidente orma di Isocrate. Certo, le situazioni pubbliche degli altri generi oratori erano mutate: non più giudizi espressi da ampie assemblee giudicanti o deliberanti.
È interessante osservare come, tuttavia, nel mondo romano a partire dalla fine della Repubblica, la finalità spettacolare delle orazioni pubbliche, confrontata con le finalità pragmatiche delle orazioni (soprattutto politiche) delle età precedenti, fosse sentita come causa di decadenza della vera arte oratoria: si leggano tali critiche nel capitolo XLIV del trattato Sul Sublime di Dionigi Longino, nelle parole di Seneca il Vecchio in Controversiae I, praef. 8-10, in Tacito, Dialogus de oratoribus 36, cfr. anche Petronio, Satyricon, 1-4. Quntiliano aveva scritto un’opera, purtroppo perduta, sul tema della decadenza dell’oratoria nel I sec. d.C., De causis corruptae eloquentiae, di cui rimangono tracce nell’Institutio Oratoria. L'idea era che l’oratoria, raggiunto l’apice nelle età precedenti (i modelli erano la grande oratoria greca attica e latina ciceroniana), non poteva poi che decadere, e che la finalità del delectare togliesse alle orazioni quel nerbo dato dal contatto con la realtà e dalla necessità di indirizzare il corso degli eventi. Sicuramente questi giudizi critici della classe intellettuale dei retori di I sec. a.C. - I sec. d.C. esprimevano il diffuso rimpianto per un sistema politico diverso da quello che cominciava a imporsi con il principato, l’impero romano e poi quello bizantino, destinato a scrivere nuove pagine di storia.
Tomassi presenta un prezioso inquadramento storico del fenomeno declamatorio di ambito greco in età romana, che ne permette la contestualizzazione nel sistema della vita pubblica dell’impero, in cui prende gradualmente sempre più spazio il fenomeno della spettacolarizzazione dell’atto oratorio.
Tuttavia, se le declamazioni pubbliche della seconda sofistica avvengono in situazioni e con finalità necessariamente molto distanti dalle orazioni della prima sofistica del V secolo a.C., a causa delle trasformazioni politiche, sociali e culturali nel bacino del Mediterraneo e nel territorio che denominiamo europeo, tuttavia va sottolineato che nei Sofisti dell’età imperiale permane il sentimento di una continuità rispetto al passato e da parte nostra è possibile riscontrare che le declamazioni continuano ad essere costruite in modo analogo, con sottili argomentazioni, con un’attenzione alla distribuzione dei pensieri nel discorso diversificata a seconda del genere oratorio, con attenta scelta delle parole e, da quanto sappiamo, con studiata memoria del testo in vista di una recitazione pubblica. L’arte retorica della seconda sofistica ha continuato a utilizzare, secondo le norme aristoteliche, i più opportuni luoghi specifici quando si discuteva di utilità comune o di danno, di giustizia o ingiustizia, di lode o biasimo attorno a valori o disvalori condivisi. La performance oratoria davanti a un vasto pubblico in una piazza cittadina era particolarmente adatta a orazioni di genere epidittico, di cui fu grande maestro ad esempio Elio Aristide, che si muove sull’evidente orma di Isocrate. Certo, le situazioni pubbliche degli altri generi oratori erano mutate: non più giudizi espressi da ampie assemblee giudicanti o deliberanti.
È interessante osservare come, tuttavia, nel mondo romano a partire dalla fine della Repubblica, la finalità spettacolare delle orazioni pubbliche, confrontata con le finalità pragmatiche delle orazioni (soprattutto politiche) delle età precedenti, fosse sentita come causa di decadenza della vera arte oratoria: si leggano tali critiche nel capitolo XLIV del trattato Sul Sublime di Dionigi Longino, nelle parole di Seneca il Vecchio in Controversiae I, praef. 8-10, in Tacito, Dialogus de oratoribus 36, cfr. anche Petronio, Satyricon, 1-4. Quntiliano aveva scritto un’opera, purtroppo perduta, sul tema della decadenza dell’oratoria nel I sec. d.C., De causis corruptae eloquentiae, di cui rimangono tracce nell’Institutio Oratoria. L'idea era che l’oratoria, raggiunto l’apice nelle età precedenti (i modelli erano la grande oratoria greca attica e latina ciceroniana), non poteva poi che decadere, e che la finalità del delectare togliesse alle orazioni quel nerbo dato dal contatto con la realtà e dalla necessità di indirizzare il corso degli eventi. Sicuramente questi giudizi critici della classe intellettuale dei retori di I sec. a.C. - I sec. d.C. esprimevano il diffuso rimpianto per un sistema politico diverso da quello che cominciava a imporsi con il principato, l’impero romano e poi quello bizantino, destinato a scrivere nuove pagine di storia.