Ho paura dei miei pensieri. Ho paura di restare l'unico verme che riesca ad avvertire dolore nell'essere pestato. Ho una fottutissima paura di esistere e, volenti o nolenti, qui ci si gioca la facoltà di non rispondere a ogni accusa, ci si gioca il ruolo del più forte, nel verbo e nell'essenza mendace delle maschere ricreate. Il punto è che non ci sono punti e che tutti i riferimenti, visti con l'occhiale dell'equilibrio, sono soltanto delle instabili sensazioni di perduranza, ma vacillano appena smorza la fiamma al vento. Ti spremono coi loro contenuti privi di sostanza, ti dettano la vacuità delle apparenze, dei giudizi e, d'un tratto, non appartieni più a te stesso. Vorresti esser forte, decostruirti, costruendoti un baluardo, uno scudo, una soglia di pacifica resistenza e non riesci a far nulla se non a meditare sulle misurazioni ottimali del tempo e su come impiegarne quel fiele. A che serve tutto il veleno del mondo se non hai un antidoto contro il mondo stesso? A cosa serve generare forme, figli, catrame e cenere se ogni senso si perde e si disfà nel proprio mutismo, se tutta la sacralità dei luoghi comuni e dei poveri cristi esautorati risveglia antropofagia e distruzione dell'essere? E chi sono io se non quei migliaia di volti aggiunti al mio voltare pagina? Chi sono io, se non legione e stigma portato nella gravità del mio genere? Sono troppo, perché porto fardelli del pensiero e, nell'interminabile e disconnesso trapestio del mondo, resto a chiedermi un solo giorno di clemenza.