Il tutto è nato per "colpa" della pandemia. Tre lunghi anni terribili, ma anche proficui. Ecco il perché. I giorni immediatamente successivi al primo lockdown per coronavirus mi sono svegliata con un immenso desiderio di libertà, non fisica, ma spirituale. Ho sentito incalzante l'esigenza di liberarmi di tanti pensieri, sensazioni da esprimere senza "se" e senza "ma", tante idee e convinzioni che, troppe volte, per pigrizia o reticenza si sottacciono. Era arrivata l'occasione, la mia occasione. Ho pensato a quante cose si vorrebbero dire ai propri figli, agli amici, agli estranei e la scusa è sempre la stessa… lo farò, ora non ho tempo… È nato così questo mio diario. Il "corona", come lo chiamo nelle mie righe mi ha fornito un alibi perfetto per non sfuggire più a me stessa. Ho scandito le sue tappe, anche se non sistematicamente, perché a loro volta segnassero la mia vita in questi tre anni e mi obbligassero a guardami dentro, a guardarmi indietro, a guardare gli altri. L'amore al tempo del corona è stato un cammino, una riscoperta di se stessi, del proprio vissuto, dei ricordi. Di un patrimonio personale inalienabile. Ne siamo usciti migliori? È la domanda che mi sono posta e alla quale non ho dato risposta ovvia. Migliori non siamo, ma dentro di noi abbiamo la possibilità di rincorrere quelle tracce di luce che illuminano i sentieri, quelli giusti. Bisogna sapere e volere, cercarle. Il "corona" forse qualche interrogativo lo ha posto…
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