Nel romanzo L’angelo danzante la sfida al/del linguaggio attraversa – in successive e insieme accidentate sequenze narrative – l’opacità della cronaca, la “banalità del male”, le trame relazionali dell’ordinaria avventura del vivere, le latenze e le improvvise accensioni della coscienza. E soprattutto, le occorrenze della contingenza e insieme le crucialità delle singole storie, là dove non di tipologie statistiche e di costanti sociologiche si tratta, ma di “nude vite” che chiedono al racconto di venire alla luce, compassionevole, delle parole e dunque dello sguardo di chi legge. Simona Lattarulo si sottrae ai relativi “diritti”, alla ricerca di verità affidate alle diagnosi culturali, alle criminologie seriali, al pur sacrosanto sdegno morale. Non se ne accontenta. E senza nulla omettere della miseria e della durezza della realtà, lasciando a chi legge per così dire l’onere di non sfuggire alla responsabilità di capire, di parteggiare, di discernere comunque tra chi agisce e chi subisce la violenza, fa emergere progressivamente la complessità delle relazioni, l’opacità delle scelte, l’ambiguità dei segni che lasciamo e riceviamo, per il solo fatto di vivere. Maria Grazia Fasoli