Nel contesto storico di grande fermento che travolse l'Europa nella prima parte dell'Ottocento, dando vita non soltanto a guerre e moti rivoluzionari ma anche innescando spunti indimenticabili per le arti di ogni genere, quest'opera di Silvio Pellico entra di diritto nella narrativa senza tempo pur partendo da un contesto autobiografico. Arrestato nel 1820 perché membro della setta segreta dei 'Federati', fu condannato a quindici anni di carcere e poi graziato dopo dieci anni di reclusione, nel 1830. Quell'esperienza, traumatizzante e totalizzante, lo portò a scrivere questo capolavoro. Che non è una propaganda politica o un'opera di denuncia, come si potrebbe pensare leggendo il titolo, ma un vero e proprio trattato spirituale, a tratti religioso, che risalta per la sua vivacità narrativa. È l'analisi di un uomo che ha provato sulla propria pelle le sbarre del carcere, la durezza della vita da recluso ma il cui animo non si è abbrutito. Si è anzi ingentilito, tante che le sue riflessioni si risolvono in un elogio del perdono. Che è tipicamente cristiano ma, in un senso più ampio, permeato di una filosofia che può esser recuperata anche ai giorni nostri. Per questo è una lettura attuale, dedicata a chi non permette che le prove della vita quotidiana trasformino la propria personalità e la propria voglia di ottimismo. All'interno - come in tutti i volumi Fermento - gli "Indicatori" per consentire al lettore un agevole viaggio dentro il libro.