La sopravvivenza di una specie non è legata alla sua forza né alla sua intelligenza, ma al grado di predisposizione al cambiamento. Quest’assunto di Charles Darwin, secondo Marco Magnani, può essere applicato anche a imprese e territori.
Le aziende che riescono a restare in gioco nel lungo periodo, infatti, non sono necessariamente quelle di maggiori dimensioni o che generano più profitti, ma quelle che gestiscono meglio i continui cambiamenti, che nell’economia globale di oggi sono frequenti, repentini e dirompenti. Storia, brand, solidità finanziaria e leadership di settore sono importanti ma a volte non bastano, come insegnano i casi di Kodak, Nokia, Motorola, Blackberry o Blockbuster, travolte da una rivoluzione digitale alla quale non hanno saputo rispondere, o quelli di gran parte degli editori di grandi enciclopedie, spiazzati da Internet e Wikipedia. Al contrario, flessibilità, visione, velocità di reazione e capacità di adattamento possono cambiare le sorti di un’azienda, come accaduto a Fujifilm, Netflix, Zara, ERG o IBM, che hanno saputo anticipare le esigenze di mercato, adattando il modello di business e diversificando le proprie attività.
Un discorso analogo vale per città, regioni, paesi. Detroit non ha saputo gestire la crisi dell’automobile, mentre Pittsburgh ha reagito molto bene a quella dell’acciaio. E molto avrebbe potuto insegnare a Taranto, se solo la questione fosse stata affrontata con una visione di lungo periodo. Venezuela, Mongolia, Argentina e Sud Africa, pur ricchi di risorse naturali o situate in posizioni geografiche strategiche, non hanno saputo sfruttare il ‘vantaggio iniziale’ e hanno sofferto la ridefinizione degli equilibri geopolitici e la globalizzazione.
Al contrario, Singapore, Israele, Finlandia e Corea del Sud, la cui sopravvivenza è spesso stata a rischio nel corso della storia, hanno dimostrato grande resilienza.
Il cambiamento assume tanti volti. Dall’innovazione tecnologica all’emergere di nuovi concorrenti, da variazioni del quadro legislativo-regolamentare al mutare di gusti e sensibilità di consumatori e investitori. Anche cambiamento climatico, flussi migratori, guerre commerciali ed emergenze sanitarie possono scardinare equilibri consolidati. La pandemia del 2020 ce ne ha dato una conferma dirompente e imprevedibile per tutti.
Il cambiamento arriva spesso come un’onda alta e minacciosa. Cavalcarla, a volte, è l’unico modo per non esserne travolti.
Le aziende che riescono a restare in gioco nel lungo periodo, infatti, non sono necessariamente quelle di maggiori dimensioni o che generano più profitti, ma quelle che gestiscono meglio i continui cambiamenti, che nell’economia globale di oggi sono frequenti, repentini e dirompenti. Storia, brand, solidità finanziaria e leadership di settore sono importanti ma a volte non bastano, come insegnano i casi di Kodak, Nokia, Motorola, Blackberry o Blockbuster, travolte da una rivoluzione digitale alla quale non hanno saputo rispondere, o quelli di gran parte degli editori di grandi enciclopedie, spiazzati da Internet e Wikipedia. Al contrario, flessibilità, visione, velocità di reazione e capacità di adattamento possono cambiare le sorti di un’azienda, come accaduto a Fujifilm, Netflix, Zara, ERG o IBM, che hanno saputo anticipare le esigenze di mercato, adattando il modello di business e diversificando le proprie attività.
Un discorso analogo vale per città, regioni, paesi. Detroit non ha saputo gestire la crisi dell’automobile, mentre Pittsburgh ha reagito molto bene a quella dell’acciaio. E molto avrebbe potuto insegnare a Taranto, se solo la questione fosse stata affrontata con una visione di lungo periodo. Venezuela, Mongolia, Argentina e Sud Africa, pur ricchi di risorse naturali o situate in posizioni geografiche strategiche, non hanno saputo sfruttare il ‘vantaggio iniziale’ e hanno sofferto la ridefinizione degli equilibri geopolitici e la globalizzazione.
Al contrario, Singapore, Israele, Finlandia e Corea del Sud, la cui sopravvivenza è spesso stata a rischio nel corso della storia, hanno dimostrato grande resilienza.
Il cambiamento assume tanti volti. Dall’innovazione tecnologica all’emergere di nuovi concorrenti, da variazioni del quadro legislativo-regolamentare al mutare di gusti e sensibilità di consumatori e investitori. Anche cambiamento climatico, flussi migratori, guerre commerciali ed emergenze sanitarie possono scardinare equilibri consolidati. La pandemia del 2020 ce ne ha dato una conferma dirompente e imprevedibile per tutti.
Il cambiamento arriva spesso come un’onda alta e minacciosa. Cavalcarla, a volte, è l’unico modo per non esserne travolti.