Medea è fuggita molti anni prima da Corinto, senza le amate figlie che le ha ucciso lo sposo Giasone, prima di morire a sua volta, suicida, perché abbandonato da una donna delusa e stanca delle violenze di lui; ella aveva infine deciso di punirlo privandolo, oltre che di sé stessa, anche dell’amore delle bambine, (ho preferito che si trattasse di due figlie femmine per sottolineare la matrilinearità di un dramma che rischia di passare da una generazione all’altra) con il ricorso alle sue arti magiche. Ora Medea è al termine dei suoi giorni: ha vissuto tutto il tempo che le rimaneva nel dolore dell’assenza e nel rimpianto di un errore irrimediabile. Sollecitata dall’amorevolezza di Fidalma, la figlia della sua antica nutrice, e delle altre donne che le sono divenute amiche, tenta ancora disperatamente di riscrivere quella pagina oscura, ammonendo una giovane sé stessa che si presentifica grazie alle invocazioni del coro. Ma la giovane Medea è protesa nello sforzo di riappropriarsi di sé stessa e del suo destino, dopo una passione folle che ha conosciuto il volto amaro della disillusione e del sopruso: Giasone, l’eroe romantico per cui aveva rinunciato a tutto, si è rivelato un debole, possessivo ed ambiguo, manipolativo e violento, invidioso della forza e del talento di lei. Medea lotta, in un confronto drammatico con le testimonianze di violenza che le donne del coro solidalmente le porgono, per prendere coscienza di sé e trovare la forza di abbandonare Giasone, lasciandosi tutto alle spalle. Anche lei però, che partecipa sia di alcuni tratti arcaici del mito che di tratti di sensibilità contemporanea (e così anche la Medea anziana e Giasone, tutti e tre vestiti del nero classico del teatro di ogni tempo), anche lei, dicevo, è figlia del suo tempo, denso di incertezze e di chiusure arroccate nelle ragioni del proprio ego: invano supplicata dalla sé stessa anziana che ha già conosciuto e vissuto tutto, e in un crescendo dialettico di riflessioni in chiaroscuro con le donne del coro, ove le ragioni della madre e del padre, si contrastano senza lasciare una chiara soluzione, la giovane Medea prende la sua decisione irrevocabile e, fingendosi sottomessa, inganna Giasone rendendolo irriconoscibile all’amore delle figlie con il ricorso al manto stregato dell’oblio. Giasone però non uccide le bambine, si ferma sull’orlo dell’abisso, quasi che lo shock del vedersi non riconosciuto dalle figlie attivasse in lui un momento di improvvisa, inconsueta consapevolezza; torna sulla scena stringendo il manto e chiamando Medea giovane ad un confronto drammatico e ineludibile. E’ a quel punto che la donna anziana si rivela alla giovane. Il tutto però è più alluso che chiaramente esplicitato, lo stesso antefatto tragico da cui parte Medea anziana è solo intuibile tra le righe. Medea anziana sollecita la giovane a liberarsi di tutti i convincimenti su sé stessa che la indurrebbero inesorabilmente a ripetersi e a reiterare la tragedia della sua vita, per di più illudendosi di essere stata libera di prendere le sue decisioni. Il discorso si allarga immediatamente a tutti gli altri personaggi, ciascuno di essi prigioniero di un’immagine di sé che tende coattivamente a ripetersi. L’oblio proposto da Medea anziana, ancora scenicamente reso con il manto, è non inconsapevolezza di sé e della propria storia ma sforzo creativo di rinnovarsi perché nulla più si ripeta del proprio passato. Tutto ciò, però, è allo stato nascente, non conquista acquisita ma speranza ed auspicio. Lo stesso auspicio che si esprime nel canto corale dell’epilogo.