Un crescendo di sequenze, e scene d’orrore. Dove dei corpi vengono vittimizzati, violentati, sfasciati, smembrati talvolta con scientificità, quasi con acribia. O seguendo un progetto folle e mostruoso. Un incubo monotematico che trascorre pagina dopo pagina, insomma. Con poche variazioni. Non è un caso, allora, che nelle poesie di Michele Montorfano il lessico sia limitato, essenziale, e il dizionario ristretto a sequele fisse e ossessive di parole che ritornano. Come se tutto fosse la ripetizione d’una sorta di scena primaria venuta da chissà dove, o la visione del male integrale da cui l’autore non riesce a distaccarsi e che, al contrario, insiste nel raffigurare con dovizia di dettagli. Via via più atroci.