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Quanto a riti del congedo, siamo un po' scarsini, ultimamente, e non è colpa della pandemia. Lo eravamo da prima. I morti, come ci ricorda Arminio, ci inviano cartoline, che non leggiamo più. Stepor Marqu trascrive qui per noi la cartolina che l'io narrante riceve il pomeriggio del non funerale. «Da un punto di vista più generale, non c'era nessun funerale, e, bara a parte, non c'era neanche il morto. Neppure la Morte era presente, sebbene fosse l'unico assente giustificato, perché era morto da anni. Era un non funerale.» Se le cose stanno così, allora dare sepoltura significa disseppellire la…mehr

Produktbeschreibung
Quanto a riti del congedo, siamo un po' scarsini, ultimamente, e non è colpa della pandemia. Lo eravamo da prima. I morti, come ci ricorda Arminio, ci inviano cartoline, che non leggiamo più. Stepor Marqu trascrive qui per noi la cartolina che l'io narrante riceve il pomeriggio del non funerale. «Da un punto di vista più generale, non c'era nessun funerale, e, bara a parte, non c'era neanche il morto. Neppure la Morte era presente, sebbene fosse l'unico assente giustificato, perché era morto da anni. Era un non funerale.» Se le cose stanno così, allora dare sepoltura significa disseppellire la memoria. «Il colpo della bara a terra / è una cosa perfettamente seria», scrive Machado nella poesia En el entierro de un amigo. Ma se a (non) morire è l'amico dell'infanzia e della prima, bruciante, incandescenza, colui che è il depositario di un segreto inconfessabile, perso poi di vista nelle nebbie e nei rigori invernali della vita adulta, siamo sicuri che il colpo della bara non sia, anche, perfettamente derisorio? Tra agiografia e sacrilegio, tra ilarità (molta) e tragedia (abbastanza), Note a piè di lapide è un'anabasi epigiocosa attraverso le macerie di una comunità assente e latitante, quella dei Girifalchi, colti nelle loro giovanili e boriose zuffe teoretiche e nella loro febbrile ed alcolica inoperosità in un anno, il 1989, in cui «le parole che erano state incatenate dal secolo breve si trovano libere, e non sanno cosa fare e dove andare». L' Io narrante cede la voce a un Noi corale. Tuttavia, non «siamo nel cuore dell'ennesimo romanzo di (de)formazione tondelliano, anche se non emiliano. Niente di tutto ciò. Non solo perché non c'era la Via Emilia lì, e non c'erano neppure i sobborghi post-pasoliniani»: siamo altrove, e siamo a bordo della macchina mitologica, giacché Stepor Marqu, in un'operazione letteraria, di cui qui presentiamo il primo volume, esplicitamente e spericolatamente debitrice a Doktor Faustus di Thomas Mann, a cominciare dal nome dell'eroe ilarotragico, erige il contraltare maschile all'amico geniale, figura archetipa, indistruttibile presenza, tanto demonica quanto angelica, che ciascuno di noi si porta dentro dall'origine mitica dell'infanzia e fino ai piedi della lapide. «Mentre vado componendo questo requiem, stanno sul mio tavolo tre libri, dai quali traggo ispirazione per andare avanti [...]. Uno è di un tedesco, uno di un polacco e il terzo di un americano. Ce ne sarebbe anche un quarto, di un ungherese, ma è troppo mitteleuropeo per essere adatto allo scopo. Ma nessuno di essi sostituisce il libro che davvero mi servirebbe, la vita di un santo o un libro di un profeta della Bibbia.»