Letteratura - racconti (79 pagine) - Gogol’ ci regala un’Ucraina gioiosa, festante e misteriosa, nella quale il gioco tra le luci e le ombre è orchestrato da una mano sapiente, capace di trasformare la leggenda in letteratura e di ammantare di arcana poesia gli uomini insieme alle loro miserie.
Nei tre lunghi racconti di questa raccolta, La fiera di Sorocinzi, Una notte di maggio, La carrozza, si ritrova tutto l’amore del girovago Gogol’ per la sua terra, abbandonata prematuramente per conoscere il resto del mondo. Narrazioni divertenti (a tratti è impossibile trattenere le risate), in cui il folklore ucraino si mescola con la letteratura più alta in un caleidoscopio di culture e colori. Leggendoli, vien voglia di entrare nel libro per ballare, bere, amare e, perché no, scappare dai grugniti assordanti del diavolo-porco insieme a protagonisti e gregari surreali, imperfetti, grotteschi. Gogol’ si conferma straordinario fotografo dei vizi umani, che rappresenta con divertita ironia, senza alcun rigurgito moraleggiante. Lo stile è magistrale. La riproduzione del parlato da capogiro. Ancora una volta, come nei Racconti di Pietroburgo e nel suo assoluto capolavoro Le anime morte, sulla pagina non si aggira nessun personaggio immacolato, ma solo un guazzabuglio di antieroi che si dimenano sotto la penna nevrotica e geniale di uno tra i più grandi autori di tutti i tempi.
Nikolaj Gogol’ (Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Velyki Soročynci, 1809 – Mosca, 1852), nato in una famiglia di piccoli possidenti terrieri, assorbì dal padre (autore di opere teatrali in lingua ucraina) l’amore per la letteratura e per il proprio popolo e dalla madre un fervente, e a tratti esaltato, misticismo. Trasferitosi a San Pietroburgo nel 1828, svolse vari impieghi nell’ambito burocratico e venne assunto come professore di Storia all’Università, lavoro che lasciò per dedicarsi solo alla scrittura. Fu amico di Aleksandr Puškin e di altri grandi intellettuali russi dell’epoca. Dopo alcuni insuccessi letterari, decise di partire per l’Europa che percorse in lungo e in largo per molto tempo, spingendosi successivamente fino alla Turchia e alla Palestina. Negli ultimi anni le sue crisi nervose si intensificarono e la sua religiosità tracimò nell’ossessione, portandolo alla prostrazione psichica e fisica (i digiuni e le privazioni autopunitive indebolirono la sua già fragile salute portandolo a una morte prematura). Tra i suoi scritti principali vanno annoverati: Taras Bul’ba (1834), racconto epico sull’Ucraina, la raccolta di racconti Arabeschi (1835), alla quale vennero aggiunti Il naso (1836) e Il cappotto (1842) per formare la pubblicazione postuma Racconti di Pietroburgo, il dramma satirico L’ispettore generale (1836) e il romanzo Le anime morte (1842).
Nei tre lunghi racconti di questa raccolta, La fiera di Sorocinzi, Una notte di maggio, La carrozza, si ritrova tutto l’amore del girovago Gogol’ per la sua terra, abbandonata prematuramente per conoscere il resto del mondo. Narrazioni divertenti (a tratti è impossibile trattenere le risate), in cui il folklore ucraino si mescola con la letteratura più alta in un caleidoscopio di culture e colori. Leggendoli, vien voglia di entrare nel libro per ballare, bere, amare e, perché no, scappare dai grugniti assordanti del diavolo-porco insieme a protagonisti e gregari surreali, imperfetti, grotteschi. Gogol’ si conferma straordinario fotografo dei vizi umani, che rappresenta con divertita ironia, senza alcun rigurgito moraleggiante. Lo stile è magistrale. La riproduzione del parlato da capogiro. Ancora una volta, come nei Racconti di Pietroburgo e nel suo assoluto capolavoro Le anime morte, sulla pagina non si aggira nessun personaggio immacolato, ma solo un guazzabuglio di antieroi che si dimenano sotto la penna nevrotica e geniale di uno tra i più grandi autori di tutti i tempi.
Nikolaj Gogol’ (Nikolaj Vasil’evič Gogol’, Velyki Soročynci, 1809 – Mosca, 1852), nato in una famiglia di piccoli possidenti terrieri, assorbì dal padre (autore di opere teatrali in lingua ucraina) l’amore per la letteratura e per il proprio popolo e dalla madre un fervente, e a tratti esaltato, misticismo. Trasferitosi a San Pietroburgo nel 1828, svolse vari impieghi nell’ambito burocratico e venne assunto come professore di Storia all’Università, lavoro che lasciò per dedicarsi solo alla scrittura. Fu amico di Aleksandr Puškin e di altri grandi intellettuali russi dell’epoca. Dopo alcuni insuccessi letterari, decise di partire per l’Europa che percorse in lungo e in largo per molto tempo, spingendosi successivamente fino alla Turchia e alla Palestina. Negli ultimi anni le sue crisi nervose si intensificarono e la sua religiosità tracimò nell’ossessione, portandolo alla prostrazione psichica e fisica (i digiuni e le privazioni autopunitive indebolirono la sua già fragile salute portandolo a una morte prematura). Tra i suoi scritti principali vanno annoverati: Taras Bul’ba (1834), racconto epico sull’Ucraina, la raccolta di racconti Arabeschi (1835), alla quale vennero aggiunti Il naso (1836) e Il cappotto (1842) per formare la pubblicazione postuma Racconti di Pietroburgo, il dramma satirico L’ispettore generale (1836) e il romanzo Le anime morte (1842).