A volersi rifugiare nei classici, non risulterebbe del tutto forzato provare a comprendere le poesie di Donato Scienza nella prospettiva del sublime. Così lo coglieremmo di spalle, mentre l'impermeabile rosso gli sventola intorno e lui passeggia sotto i lampioni ancora accesi di una città che si rianima alle prime luci dell'alba. Il sublime è quella cosa per cui l'uomo dei filosofi sente che la propria destinazione è superiore rispetto alle forze che lo sovrastano. E di questa oppressione, Donato Scienza risulta una sorta di testimone che porta le cicatrici, an-che se a volte le mostra danzando. Perché bisogna essere un po' spostati per trovare qualche motivo di esultanza nel puntuale disaccordo tra il dispendio della propria grazia e la pidocchieria dei giorni. Eppure, più la vita colpisce duro e più queste poesie la celebrano, senza mai trascurare di includervi un piccolo gesto, un'invettiva o l'erezione che riscattano qualunque cosa. Sempre, anche quando si ha la sensazione che un minuto prima di mettersi a fischiettare lo swing, il ribelle in impermeabile rosso abbia effettivamente partecipato a un violentissimo riot metropolitano, spaccato vetrine, saccheggiato empori di superalcolici e abiti gessati, generi alimentari e mazzi di fiori, per poi precipitarsi con un'eleganza claudicante ma ostinata a casa di un'amica. E qua accade qualcosa di sorprendente, perché davanti ai loro corpi che nonostante tutto si tornano a incontrare, Scienza trova pace, profondamente grato per l'intelligenza e l'anarchia dei corpi, che pur non dimenticando mai nulla continuano a gioire. Questo mi sembra il punto, allora: far gioire tutto il passato. Un punto difficile, che contrasta con il luogo comune per il quale la felicità non ha memoria oppure è malinconica, commozione per la felicità consumata.