Sotto le raffiche piovose del Febbraio, lungo la strada melmosa che dal borgo menava alla fabbrica, operai ed operaie avviavansi alle officine. Trenta passi più avanti rosseggiavano i tetti della Lineuse di sopra al folto degli abeti, il cui verde cupo rialzava il biancore della facciata. Sorgeva a sinistra in due piani l’edificio dei magazzini, dei laboratori e degli uffici, congiungendosi all’abitazione dell’industriale per via di un lungo caseggiato rientrante, ov’erano la tintoria, i seccatoi e l’alloggio del sovrastante. Un ampio cortile separava i due principali corpi di fabbrica. Gli operai procedevano senza fretta, affondando co’ rozzi scarponi nella mota: i tintori, dalle chiazze turchine che screziavano loro i vestiti, le mani screpolate e perfino la faccia; le tessitrici, quasi tutte giovani, dai capelli svolazzanti, dalle larghe casacche che consentivano al libero ondeggiare del busto. A due ed a tre si riparavano, sotto lo stesso ombrello di cotone, qualcuna sgranocchiava ancora frettolosa un rimasuglio di crosta del pasto meridiano. Arrivate all’ingresso del cortile, le donne si strinsero sotto l’aggetto della tettoia, chiamando e motteggiando le compagne in ritardo, che accorrevano sotto la pioggia dirotta, mentre il vento ad ogni poco ne arrovesciava gli ombrelli. Squillò poi la campana stridula della fabbrica, annunziando la ripresa del lavoro; il portone fu aperto a mezzo; e tutta la turba, traversando il cortile, che suonò ad un tratto di voci e di zoccoli sbattuti, si riversò nelle officine.