- Vita di un pittore di una città di provincia del NordEst, il gruppo, l'amore, le sue originali scelte di vita -
INCIPIT
“Guardare per lunghi momenti i fiumi, le rocce, i fiori del campo, il mondo intorno finché vaghe sensazioni avvolgano le immagini poi lasciandole là, straordinariamente irreali: pensieri per i quali non si cerca ragione, né si cerca il filo logico delle sequenze e nemmeno un minimo legame con l’Io cosciente; immaginare angoli sereni dell’animo umano, le pieghe profonde dove talvolta arrossendo si nasconde l’affetto; scorgere le trasparenze dei propri sentimenti o degli altrui e stupirsene e restarne abbagliati o sconvolti…”
Carlo aveva spesso di queste rappresentazioni mentali più o meno coscienti però assolutamente colorate.
“…tutto ciò ma altro, tanto ancora è possibile per un pittore. E non importa che sia o no un grande artista, famoso. In fondo non conta nemmeno che sia bravo a dipingere, purché dipinga il suo pensiero poetico; questo sì che sia grande, immenso tanto da comprendere l’universale sentire.”
Figurazioni che gli apparivano piuttosto estranee eppure potevano essere, come a volte sono le contemplazioni interiori, disincantate esploratrici dell’Io meno noto.
Nello stesso modo a sua insaputa, Carlo Zulay era un pittore di questi. Era inoltre un gran signore o almeno tale egli si riteneva potendo gestire il suo tempo. Disponeva persino di due cognomi, Scarpa e Zulay appunto. Quando li usava insieme, per atti ufficiali o presentazioni, molti lo degnavano di maggior attenzione, trattandolo (qualora vestisse appropriatamente) anche con un certo ossequio, immaginandolo un po’ aristocratico in una Repubblica che di queste cose ufficialmente se ne stropiccia.
Star là a spiegare che era figlio della signorina Laura Zulay di lontanissima origine polacca, la quale lo aveva avuto da un distratto Aniceto (detto e pronuciato Nice) Scarpa che, in un secondo tempo, l’aveva sposata, seppur non troppo tempestivamente, tanto che gli era rimasto appiccicato il cognome della madre e che Nice, siccome il figlio comunque era suo, l’aveva poi adottato imponendogli, in aggiunta, anche il suo cognome? Significava perdere un sacco di tempo e poi erano affari suoi. Così non pochi continuavano a ritenere di nobile casato uno già figlio della colpa il quale, disinteressato all’argomento, continuava a farsi chiamare solo con il cognome materno.
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Copertina realizzata da Sara Cavallaro
INCIPIT
“Guardare per lunghi momenti i fiumi, le rocce, i fiori del campo, il mondo intorno finché vaghe sensazioni avvolgano le immagini poi lasciandole là, straordinariamente irreali: pensieri per i quali non si cerca ragione, né si cerca il filo logico delle sequenze e nemmeno un minimo legame con l’Io cosciente; immaginare angoli sereni dell’animo umano, le pieghe profonde dove talvolta arrossendo si nasconde l’affetto; scorgere le trasparenze dei propri sentimenti o degli altrui e stupirsene e restarne abbagliati o sconvolti…”
Carlo aveva spesso di queste rappresentazioni mentali più o meno coscienti però assolutamente colorate.
“…tutto ciò ma altro, tanto ancora è possibile per un pittore. E non importa che sia o no un grande artista, famoso. In fondo non conta nemmeno che sia bravo a dipingere, purché dipinga il suo pensiero poetico; questo sì che sia grande, immenso tanto da comprendere l’universale sentire.”
Figurazioni che gli apparivano piuttosto estranee eppure potevano essere, come a volte sono le contemplazioni interiori, disincantate esploratrici dell’Io meno noto.
Nello stesso modo a sua insaputa, Carlo Zulay era un pittore di questi. Era inoltre un gran signore o almeno tale egli si riteneva potendo gestire il suo tempo. Disponeva persino di due cognomi, Scarpa e Zulay appunto. Quando li usava insieme, per atti ufficiali o presentazioni, molti lo degnavano di maggior attenzione, trattandolo (qualora vestisse appropriatamente) anche con un certo ossequio, immaginandolo un po’ aristocratico in una Repubblica che di queste cose ufficialmente se ne stropiccia.
Star là a spiegare che era figlio della signorina Laura Zulay di lontanissima origine polacca, la quale lo aveva avuto da un distratto Aniceto (detto e pronuciato Nice) Scarpa che, in un secondo tempo, l’aveva sposata, seppur non troppo tempestivamente, tanto che gli era rimasto appiccicato il cognome della madre e che Nice, siccome il figlio comunque era suo, l’aveva poi adottato imponendogli, in aggiunta, anche il suo cognome? Significava perdere un sacco di tempo e poi erano affari suoi. Così non pochi continuavano a ritenere di nobile casato uno già figlio della colpa il quale, disinteressato all’argomento, continuava a farsi chiamare solo con il cognome materno.
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Copertina realizzata da Sara Cavallaro