Un mese. Una sorta di diario della sofferenza che l’autrice, alla sua prima esperienza letteraria, fa uscire dal suo cuore per allontanare il dolore, scomporlo, rileggerlo, correggerlo tante e tante volte quasi ad impararlo a memoria, come una cantilena, una ninna nanna per riuscire ad addormentarlo. La sua storia, può sembrare banale ed in fondo lo è. Per questo non attribuisce nomi propri alle persone del racconto. Mio marito potrebbe chiamarsi Nino o Giuda, il nome della trombamariti potrebbe chiamarsi Maira (la pantera del ribaltabile) o Luana (infida impiegata milanese). Sorelle, madri, nonni, colleghe, nipoti, amiche... chi non ne ha. Ognuno potrebbe identificarsi nella sua storia. La revisione ortografica del suo scritto, riesce persino a farla sorridere quando alla definizione di ‘trombamariti’ il computer segnala ‘nessun suggerimento’. Esatto! Una perfetta sconosciuta. Ma in fondo, cosa sono i nomi? Le persone si distinguono per ciò che fanno, non per quello che sono o dicono di essere. Ha mantenuto solo i luoghi Liguri, a lei rivelatisi sempre ostili, ma che ha amato da subito perché il suo lui viveva da quelle parti. Lei che era abituata a nutrirsi delle sue certezze, si trova a perderle tutte e nello stesso momento. Ora deve ricostruire dalle rovine di Atlantide che, da splendida città, non ne rimase che qualche colonna spezzata finita sott’acqua. Il tempo che scorre lentissimo, la porta a riflettere, a vedere con occhi diversi, a percepire odori e sapori differenti. Ed è proprio da uno di questi sapori che alla fine riconosce la vera natura di quello che credeva fosse l’Uomo della sua vita, quello con cui avrebbe voluto camminare fianco a fianco, fino all’ultimo dei suoi giorni.