La “Storia della colonna infame” è un saggio storico scritto da Alessandro Manzoni legato al periodo storico in cui è ambientato il romanzo “I promessi sposi”.
La vicenda narra del processo intentato a Milano, durante la terribile peste del 1630, contro due presunti untori, ritenuti responsabili del contagio pestilenziale tramite misteriose sostanze, in seguito ad un'accusa - infondata - da parte di una "donnicciola" del popolo, Caterina Rosa.
Il processo, svoltosi storicamente nell'estate del 1630, decretò sia la condanna capitale di due innocenti, Guglielmo Piazza (commissario di sanità) e Gian Giacomo Mora (barbiere), giustiziati con il supplizio della ruota, sia la distruzione della casa-bottega di quest'ultimo. Come monito venne eretta sulle macerie dell'abitazione del Mora la "colonna infame", che dà il nome alla vicenda.
Solo nel 1778 la Colonna Infame, ormai divenuta una testimonianza d'infamia non più a carico dei condannati, ma dei giudici che avevano commesso un'enorme ingiustizia, fu abbattuta. Nel Castello Sforzesco di Milano se ne conserva la lapide, che reca una descrizione, in latino seicentesco, delle pene inflitte.
La vicenda narra del processo intentato a Milano, durante la terribile peste del 1630, contro due presunti untori, ritenuti responsabili del contagio pestilenziale tramite misteriose sostanze, in seguito ad un'accusa - infondata - da parte di una "donnicciola" del popolo, Caterina Rosa.
Il processo, svoltosi storicamente nell'estate del 1630, decretò sia la condanna capitale di due innocenti, Guglielmo Piazza (commissario di sanità) e Gian Giacomo Mora (barbiere), giustiziati con il supplizio della ruota, sia la distruzione della casa-bottega di quest'ultimo. Come monito venne eretta sulle macerie dell'abitazione del Mora la "colonna infame", che dà il nome alla vicenda.
Solo nel 1778 la Colonna Infame, ormai divenuta una testimonianza d'infamia non più a carico dei condannati, ma dei giudici che avevano commesso un'enorme ingiustizia, fu abbattuta. Nel Castello Sforzesco di Milano se ne conserva la lapide, che reca una descrizione, in latino seicentesco, delle pene inflitte.