«La primavera del 1885 fu particolarmente mite a Parigi. […] Faustine de Vogüé-Dufayel passeggiava lungo il Boulevard Saint-Germain con l’ultimo dei suoi tre figli. Aveva passato la trentina, anche se l’espressione svagata del volto sembrava renderla più giovane. Bionda e graziosa aveva una figura fragile: busto minuto e piccoli seni, strette spalle diritte, braccia lunghe ed esili. […] La figura appariva nell’insieme affascinante, all’insaputa della stessa Faustine.» […]
«Faustine de Vogüé Dufayel morì sola, alla Salpêtrière, vent’anni dopo il suo ricovero.»
Così incomincia e così finisce la Storia di Faustine. La passeggiata primaverile dell’elegante madame Dufayel (consorte di Julien, rampollo di quei Dufayel «che stavano per costruire, proprio in quell’anno di grazia 1885, i nuovi Grands Magazins Dufayel»), si conclude, disegnando una parabola tutt’altro che infrequente nelle famiglie della grande borghesia di fine secolo, nel regno di Jean-Martin Charcot, il grande maestro parigino che aveva isolato la «malattia nervosa» dell’epoca: l’isteria. Quello stesso anno, nell’ottobre del 1885, Sigmund Freud ne era diventato l’allievo.
La storia di Faustine si affaccia così sulla soglia della psicanalisi, ma non entra a far parte degli Studi sull’isteria: rimane segnata – attraverso quella sconcertante liaison, di cui solo l’isteria, che sa coniugare l’impalpabile banalità del gesto quotidiano alla più tragica conseguenza, possiede il segreto – dalla dedizione assoluta al fantasma dell’amore impossibile e già da sempre perduto.
«Come respirare in questa assenza? Le vie di Parigi, le pietre lucide delle strade, i muri delle case non vi vedranno più. Anche loro sentiranno un vuoto. Nessuno potrà confortarli. Tanto meno io che affogherò in muri, case, pietre, senza poter più ricavare per me neanche un fazzoletto d’aria, io… assimilata alla pietra… murata …».
È tutto ciò che ci rimane della passione di Faustine: un segno «sul muro grafito» per un amante che mai lo leggerà; e il solo che quasi per caso lo avrà sotto gli occhi – Julien – se ne disferà con indifferenza.
Patrizia Crippa rimette sorprendentemente «l'isterica» al centro di un romanzo dove le ragioni della Storia (la sola che ha il diritto di essere ricordata) che trascendono ogni destino personale ci appaiono nella loro Vanitas davanti alla trascurabile storia di Faustine, segnata da quella fatalità che per Rimbaud connotava la giovinezza: a tutto asservita, è per delicatezza che ha perso la vita.
«Faustine de Vogüé Dufayel morì sola, alla Salpêtrière, vent’anni dopo il suo ricovero.»
Così incomincia e così finisce la Storia di Faustine. La passeggiata primaverile dell’elegante madame Dufayel (consorte di Julien, rampollo di quei Dufayel «che stavano per costruire, proprio in quell’anno di grazia 1885, i nuovi Grands Magazins Dufayel»), si conclude, disegnando una parabola tutt’altro che infrequente nelle famiglie della grande borghesia di fine secolo, nel regno di Jean-Martin Charcot, il grande maestro parigino che aveva isolato la «malattia nervosa» dell’epoca: l’isteria. Quello stesso anno, nell’ottobre del 1885, Sigmund Freud ne era diventato l’allievo.
La storia di Faustine si affaccia così sulla soglia della psicanalisi, ma non entra a far parte degli Studi sull’isteria: rimane segnata – attraverso quella sconcertante liaison, di cui solo l’isteria, che sa coniugare l’impalpabile banalità del gesto quotidiano alla più tragica conseguenza, possiede il segreto – dalla dedizione assoluta al fantasma dell’amore impossibile e già da sempre perduto.
«Come respirare in questa assenza? Le vie di Parigi, le pietre lucide delle strade, i muri delle case non vi vedranno più. Anche loro sentiranno un vuoto. Nessuno potrà confortarli. Tanto meno io che affogherò in muri, case, pietre, senza poter più ricavare per me neanche un fazzoletto d’aria, io… assimilata alla pietra… murata …».
È tutto ciò che ci rimane della passione di Faustine: un segno «sul muro grafito» per un amante che mai lo leggerà; e il solo che quasi per caso lo avrà sotto gli occhi – Julien – se ne disferà con indifferenza.
Patrizia Crippa rimette sorprendentemente «l'isterica» al centro di un romanzo dove le ragioni della Storia (la sola che ha il diritto di essere ricordata) che trascendono ogni destino personale ci appaiono nella loro Vanitas davanti alla trascurabile storia di Faustine, segnata da quella fatalità che per Rimbaud connotava la giovinezza: a tutto asservita, è per delicatezza che ha perso la vita.