Un romanzo popolare, anzi “un romanzetto”: così l’Autore ama chiamare i suoi quattordici gialli. E il presente, niente meno, per l’ultima inchiesta di Marè. E naturalmente l’ultima non sarà. Ma giallo e popolare sì. Di genere? Ma sì, con tutti i crismi: trama, mistero, feuilleton, indagini, indagati, svelamento (ma non consolatorio) del mistero… Se poi anche in questo ultimo Marè – come alcuni critici severi e quei venticinque lettori forse ipocriti ma certo ben scafati hanno rilevato già per gli altri – il genere si eleva e travalica, lo diranno i lettori. E i suddetti critici, of course. Sembra però di poter dire che quest’ultima prova in prosa di emmequ segni un passo indietro – o in avanti? o di lato? – rispetto ai precedenti. La storia narrata è ancora, come sempre, vicenda privata inserita e intrecciata alla Storia dell’Italia e del tempo; come sempre i caratteri si danno soprattutto attraverso il dialogo; come nei precedenti Roma non è solo teatro ma coprotagonista della storia…: sì, ma in questo “Troppo cuore”, l’azione va ad esaurimento (solo un colpo di pistola, insomma), mentre lievita e cresce, col sottofondo di gran jazz e di songs belle assai, ricerca culturale sociologica e morale. C’è insomma, a dispetto del titolo, molto più di cervello che di cuore. Fino alle soglie, o ben addentro, quello che, nato nel ’900 (e se Dio vuole ancora in vita), romanzo saggio fu detto. E così la lingua: la quale, forse per codesto, si dà meno mossa ed impastata, meno impasticcata, meno intruglio di italiano e dialetto, di colto e di volgare. E di seguito il Marè, come fosse davvero all’ultima balera, ci diventa tormentato insicuro e malmostoso come mai. E, ma stavolta veramente, sempre più triste solitario y final. Artigianato d’autore, dunque. Di cui lui, l’autore, del resto si fa vanto. Chiamando ancora per sostegno, orgogliosamente, il venerato Bertolt Brecht: “Chi si limita a considerare solo i sommi non capisce niente di letteratura. Un cielo con solo stelle di prima grandezza non è un vero cielo”.