Vertigine d’inchiostro ovvero l’elogio della parolaUn versificare pari ad una “vertigine d’inchiostro”. Versi e parole che portano verso una vertigine emotiva, un “limitare e un liminare” affannoso e sofferto che racconta l’anima di chi scrive, fortemente abbarbicata alle parole che “contano il tempo perso, l’amore ritrovato, i sorrisi e le lacrime” e, nel mentre emozionano, possono essere violente, ferire, curare, carezzare e consolare e farsi “melodiche come una soave sinfonia”. Luisa Pecora è “fatta di parole, di troppe parole, confuse e irrequiete, invadenti, frettolose e impazienti, inadeguate” in un climax che ora si fa ascendente e ora discendente a volerci raccontare che la Parola, nella sua malleabilità, può camminare tra i rovi dell’esistenza, vagare tra le fitte boscaglie, le putride fanghiglie, le strade sterrate, i pesanti macigni, i fallimenti. La parola (e la penna) scorre, infatti, “attenta tra le pieghe della vita” e lo scrivere è “un tarlo nascosto” e “una singolare natura incomprensibile agli occhi dei sani”. Un’apoteosi, dunque, della parola perché nominare le cose attraverso le parole significa guardarsi e guardare e, dunque, vedere e dare un senso a percorsi non sempre lineari della vita e acquisire uno sguardo più alto rispetto e riguardo al mondo. Anche quando le parole si fanno “sciocche e inadeguate, stupide e inutili” restano una vertigine d’inchiostro. Ma la vertigine resta e questo è fondamentale per chi legge. Del resto “scrivo perché non vivrei senza” e, dunque, usare le parole equivale a vivere ed esistere.