Figura poliedrica capace di passare con disinvoltura dal campo alla scrivania e viceversa, Vittorio Pozzo entra nella Storia per aver guidato da commissario tecnico il periodo d’oro della Nazionale italiana di calcio che, negli anni Trenta, vince tutto dominando l’Europa e il mondo. Alla base di quei successi c’è una passione smodata per il football, coltivata sin da ragazzo. Ma c’è anche, se non soprattutto, dell’altro: una profonda conoscenza degli uomini, la capacità di creare un inossidabile spirito di gruppo e di unire personalità diverse, da Meazza a Ferraris IV, da Monti a Orsi. Pozzo è un motivatore eccezionale, crea dei legami quasi di sangue con i giocatori che lo seguono senza batter ciglio. Quell’Italia, per quanto il regime fascista si sforzi con tutto se stesso, non diventa mai davvero la Nazionale di Mussolini, ma resta sempre di Pozzo e dei suoi ragazzi. Il rigore morale e l’educazione spartana derivate dalla sua esperienza nella Prima guerra mondiale accompagnano Pozzo per tutta la vita. Il calcio italiano gli deve tantissimo, eppure dopo il 1948 di fatto lo emargina. All’ex Ct non resta che occuparsi di calcio scrivendo per “La Stampa” con un modo che affascina e gli dà autorità: in una discussione tra tifosi citare Pozzo significa porre fine alla disputa. Dopo la sua morte sono pochissimi i riconoscimenti ufficiali: un oblio che l’uomo Vittorio Pozzo non merita.