La raccolta Vuci di celi luntani (‘Na Terra scordata) di Gregorio Viglialoro coinvolge una molteplicità di interessi, che non sono soltanto letterari, ma anche intellettuali, storici, sociali, i quali d’altronde prendono corpo dal calore dell’immaginazione e dai caratteri essenziali della società di Calabria. Si assiste così all’affermazione di una terra dimenticata e abbandonata e al conseguente macerarsi dell’arte viglialoriana in paradossali antinomie: il deserto calabrese si colora di pathos umano.Non siamo più al cospetto di una terra di magia e d’incanti, ma tanto aspra quanto cara al poeta: profittatori e impostori senza scrupoli l’hanno spogliata dei suoi beni e ridotta in miseria.L’evoluzione intellettuale del poeta si svolge parallelamente all’evolversi della sua partecipazione civile, che prospetta, con voce ferma, fermenti di una realtà poco consolante.La silloge non è ammalata d’individualismo, né d’idealismo, ma è il ripensamento sentimentale-politico della Calabria, entità geografica e umana, che non trova la strada del rinnovamento, col richiamo conseguente ai luoghi di solare e vergine bellezza, in parte deturpata da rapinatori e consorterie, e col rifugio nella suggestione evasiva dell’arte.L’elemento centrale della poetica narrazione, persino storica e morale, è l’amore, che s’accompagna con il sentimento di mortificazione per i torti ricevuti e le violenze subite e che, con foga per lo più oratoria, si getta a «malidire» il lento morire alla Storia.Il suo amore è ricordo di bellezze naturali rigogliose, di luoghi ameni, di aria pulita, di mare blu, di manto di stelle e di olivi, di prati fioriti e d’oro, di colori più intensi; ed è rifiuto di ecomostri, di fucilate e grida, di partenze senza ritorno, di ansie e «attisi gralimati».Da qui emerge il contrasto tra il richiamo a un mondo che scompare e l’astio verso le occasioni sprecate.È interessante notare che lo sguardo di Viglialoro penetra in visioni amare e tese, ma anche in cieli azzurri e in danze di angeli e fate; in reali condizioni esistenziali, in febbrili e varie preoccupazioni della gente di Calabria e in umili ambienti indagati sempre con acuta lucidità:‘Sti mura di petra e spina christimal’accògghinu l’amara faticadi cu cunsuma li jorna soiaspettandu l’arba.Terra, sini abituata a ‘nghiuttiri ‘mbanudavanti a cu spruppa e ti faci ontasenza pagari.Tu vesti a luttu affendutae la pedhi si vruscia a lu sulicurtivandu speranzi.L’esigenza della nuova alba, che fu preponderante nella poetica di Rocco Scotellaro, qui non è frutto di abbandono gioioso, quindi sentimentale, ma bisogno di curare il fatalismo atavico con la medicina necessaria per l’auspicata guarigione.Rimane, comunque, irrisolta la conciliazione di Viglialoro col mondo contemporaneo, ma in lui è sempre desta la meditazione sulle potenzialità umane, che possono compiere quel prodigio che la volontà individuale mai potrebbe.Viglialoro si serve della parlata del suo popolo, rivelando nel resto una scaltrita tecnica letteraria. Il suo linguaggio acquista mirabilmente, nello schema del sonetto e della canzone, potenza evocativa dell’espressione fondata non tanto su immagini, metafore, suggestioni analogiche, quanto sulla capacità emotiva della realtà sociale.È Viglialoro che, con l’anima in pena, ragiona, parla, impreca, racconta, abbandonandosi più al rigore compositivo che all’estro dell’improvvisazione, scene della quotidiana fatica del vivere in Calabria, una regione sofferente per mali antichi, travagliata da problemi attuali, oscillante fra «sonnu e gabbarìa», ma che ha sincere note commosse da offrire e profondi affetti da spartire.