Il corpo di tre quarti, la gamba destra piegata all'indietro, il tacco che colpisce il pallone e manda fuori tempo gli avversari. Se si potesse fermare la carriera di Roberto Mancini in un attimo, riassumerla in un solo gesto, sarebbe questo. Una vita calcistica trascorsa all'insegna del colpo a effetto, con un bagaglio tecnico sterminato e una personalità dirompente, quella che gli ha permesso di vincere trofei con la Sampdoria, compreso uno scudetto che rappresenta una delle ultime grandi imprese del calcio italiano, e la Lazio. Vittorie significative, arrivate fuori dal giro delle «grandi» storiche. Ma forse quel carattere e quella personalità hanno finito per impedirne un'ascesa ancora maggiore. Marco Gaetani racconta uno dei talenti più limpidi passati per la Serie A negli ultimi quarant'anni, e non ne nasconde gli eccessi caratteriali. «Mancio», esploso ai massimi livelli quando era ancora un adolescente, ha saputo adattarsi presto a un mondo di altissima competitività, senza mai rinunciare al suo modo di intendere la vita e il calcio. Tanti hanno provato a trasformarlo in un centravanti moderno ma hanno dovuto fare i conti con la sua voglia di essere un numero 10, tanti lo hanno amato a prescindere dai suoi improvvisi momenti no. Con la maglia azzurra Mancini è stato atteso invano: il feeling, almeno sul campo, non è mai nato. È poi sbocciato da allenatore, al culmine di un altro percorso, avviato quando ancora non sentiva di aver davvero tolto gli scarpini. E ora, forse, Mancio ha finalmente fatto pace con l'Azzurro.
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