In nome di Dio e del guadagno: ovvero, tra cenci e cantuccini, il mito della frontiera, secoli prima di un certo West a stelle e strisce.Aprire un vecchio baule di famiglia, rompere il sigillo funesto dell’oblio, riavvolgere il filo della memoria: lettere, cartoline, biglietti di auguri e condoglianze, partecipazioni di nozze e battesimi, buoni del Tesoro fuori corso e quaderni di squola con qualche q di troppo.Mettere ordine nei propri affari, nella presunzione di essere il ragioniere della partita doppia aperta tra la propria stirpe e un ipotetico dio, forse non troppo interessato ai fatui splendori e alle agrodolci miserie degli umani.All’ombra del pulpito di Donatello, tra il baccano dei telai e la peluria volteggiante che odora di morchia, nel tempo scandito dall’orologio del collegio Cicognini e dalla danza voluttuosa della Salomè di Filippo Lippi: cinque generazioni in bilico tra la volontà di non finire minoritari e incompresi e la tentazione di cantare fuori dal coro belante di chi dalla vita si fa macellare senza mai porsi un solo perché.Non però solo a Prato la condanna della conoscenza si sconta vivendo.Siamo, ovunque, tutti sulla stessa pazza giostra: chi salito prima, chi poi, in ordine sparso; senza biglietto da obliterare e per un numero di giri non contrattualmente garantito.