Aveva solo vent’anni, Luciano Gianello. Eppure, per lui – e per tanti e tante come lui – la guerra non era finita il 25 aprile del 1945. Non era finita perché le camicie nere e i loro camerati nazisti continuavano a uccidere vigliaccamente, silenziosamente. Lo facevano con i tanti ordigni disseminati nei borghi e nelle campagne, con le bombe inesplose e con i campi minati. Per questa ragione il giovane Gianello, il partigiano Mirko per chi era stato al suo fianco nel battaglione “Picelli” sull’Appennino parmense, continuava a mettere a repentaglio la propria vita, affrontando un’opera che poteva rivelarsi addirittura più pericolosa che combattere i nazifascisti in campo aperto: bonificare i luoghi in cui la soldataglia di Hitler e Mussolini aveva depositato la sua promessa di morte. Una morte che si porterà via il partigiano Mirko, alle prese con una carica di polvere nera, in un giorno di novembre del 1945, mentre l’eroe di tante battaglie tentava di brillare una mina fascista. Ma che pure svelerà, attraverso il ritrovamento di un baule pieno di armi mai riconsegnate avvenuto a sessant’anni dalla sua scomparsa, come Gianello non avesse alcuna intenzione di farsi ritrovare inerme di fronte a un eventuale ritorno del male: «Morte ai fascisti», recava inciso il calcio del suo fucile. E «Amo solo te», era la scritta apposta sul suo Sten. Frammenti di una storia collettiva a cui Piermichele Pollutri dà la forma di un romanzo corale, consegnando in eredità alle nuove generazioni quella che fu la vita ribelle di Luciano Gianello, partigiano.